‘Sogni di Libertà’: Anticipazioni Settimanali: Eliminare Remedios? Gabriel Vuole Cancellare il Passato
Dal 10 al 14 Novembre: Un Gioco di Potere Senza Scrupoli nell’Alta Società di Toledo
Le giornate a Toledo si aprono sotto un cielo gelido e trasparente, quasi un invito a confrontarsi con le verità più scomode. Le strade sembrano immacolate, le facciate austere, come se la città stessa avesse deciso di fare tabula rasa dei segreti. Ma all’interno delle dimore eleganti, la luce si filtra attraverso persiane che da anni custodiscono e modellano storie non dette. È in questo scenario intriso di mistero e tensione che si dipanano le vicende dei nostri protagonisti, tra intrighi d’affari, ambizioni personali e la disperata ricerca di un futuro.
Lunedì: Il Ritorno e una Richiesta Inaspettata

L’alba porta con sé un’atmosfera carica di attesa. Begoña, con un quaderno stretto al petto, bussa alla porta di Gabriel. L’assenza del consueto caffè profumato e un silenzio quasi palpabile accolgono l’infermiera al suo ingresso. Gabriel, impeccabile, attende con un’espressione indecifrabile, come se ogni suo gesto fosse calcolato per nascondere i pensieri più reconditi.
“Sei tornata,” dice Begoña, la sua voce un misto di gratitudine e un velato rimprovero.
“Sono tornato,” conferma lui, un sorriso enigmatico che Begoña non riesce a decifrare.
Nessun abbraccio. Tra loro aleggia il nome di Julia e i sussurri di Parigi, un ritorno avvolto in documenti francesi e un’agenda misteriosamente incompleta.

“Voglio chiederti una cosa,” esordisce Begoña, le parole preparate per mesi, ora finalmente pronte a prendere forma. “Voglio che formalizziamo la nostra richiesta per rendere Julia la nostra figlia. Non a parole, non con promesse che si dissolvono con il caffè della mattina. Legalmente, voglio che cresca con il nostro cognome, che nulla e nessuno possa portarcela via.”
La proposta di Begoña coglie Gabriel di sorpresa. Si aspettava entusiasmo, il desiderio di ricostruire una famiglia, ma non questa fermezza, questo bisogno di sancire la felicità con un atto notarile. La foto di Begoña con una Julia protettiva, la mano aperta sul pancione incerto, è una muta testimonianza del legame che si sta consolidando.
“Non è il momento migliore,” dice Gabriel, addolcendo la voce. “Farí non è stato gentile. Ci sono movimenti in azienda. Damián è… fragile. Se spingiamo troppo, qualcosa si romperà.”

“Ciò che si rompe quando non si fa in tempo non è una cosa,” replica Begoña, con una risolutezza che non ammette repliche. “Sono un bambino, o due.” Le parole pesano nell’aria, riferendosi al futuro nascituro e alla casa che già parla al domani attraverso quel ventre rotondo. Gabriel pensa al suo piano, alle pedine disposte come in una partita a domino, e a come questa richiesta inaspettata metta un dito sulla prima pedina.
“Dammi un giorno,” concede infine. “Lasciami mettere ordine nell’agenda. Parlare con Damián, capire cosa hanno deciso a Parigi. Domani ti darò la mia parola, o la mia firma.” Non è un sì definitivo, ma Begoña, esperta dei tempi della speranza, annuisce.
Martedì: Liberazione Amara e un Cambio di Nome Sconvolgente

Nel frattempo, Pelayo esce di prigione, portando con sé l’odore metallico dei telefoni pubblici. Era entrato con la sicurezza di chi possiede contatti e risorse, ma esce con l’inquietudine di chi ha toccato un territorio a lui sconosciuto. Le condizioni dell’addio le ha ascoltate con un misto di scherno e rassegnazione: sì, avrebbe accettato, avrebbe chiuso la bocca, era stufo. Eppure, negli abissi del suo sguardo, si intravede ancora una scintilla affilata, un ricordo che potrebbe ancora trasformarsi in coltello.
“Non sarà più un problema,” dice a Marta, con una fretta che tradisce un disagio. “Ho bloccato tutto. Ho comprato la pace.” Marta lo osserva con la calma di chi sa che la pace, come un profumo, ha diverse sfaccettature. Ciò che Pelayo ha acquistato è solo un primo impatto, destinato a evaporare.
“Spero tu abbia ragione,” risponde Marta, mentre un sospetto appena nato aleggia nell’aria.

Damián non regge più gli spaventi. Marta percepisce una nuova distanza in lui, un ripiegamento che non cerca punizione, ma sopravvivenza.
Ed ecco che squilla il telefono. Chloe, la francese, non chiama mai se non per motivi urgenti. La sua voce, solitamente concisa e tagliente, ora trasmette un’urgenza inaudita. “Marta Cher, mi dispiace essere io a doverglielo annunciare, ma è meglio che lo sappia prima di arrivare in negozio. Da oggi, Perfumerías de la Reina sarà Perfumerías Brosart de la Reina.”
È un dettaglio, un sussurro, ma per Marta è un colpo al cuore. Comprende, ancor prima dell’indignazione, la precisione del colpo: non una sostituzione plateale, ma una lenta trepanazione, un cognome inserito come se fosse sempre stato lì.

“Damián lo sa?” chiede Marta, la rabbia che le stringe la gola.
“Ora sta vedendo le nuove insegne,” risponde Chloe, dolce come il filo di una lametta. “Accompagnala, avrà bisogno di te.”
Alla fabbrica, Joaquín si sta sgretolando da giorni. È il nuovo direttore, ma non lo è. Firma licenziamenti che non gli appartengono, obbedisce a ordini altrui, a un francese senza volto. Ed è proprio in questo crogiolo di frustrazione che incontra Tasio, sfinito, con le mani che odorano di cancelli. L’esplosione è inevitabile.
“Non dirmi che esegui ordini!” ringhia Joaquín. “Non parlarmi come se il dolore avesse un percorso amministrativo!”
Tasio, che ha perso troppo in altre battaglie, serra la mascella. “Sto salvando i posti che posso,” ribatte. “E sto salvando te da un tradimento maggiore, perché se non lo faccio io, lo farà Brosart. E tu preferirai me.”

Joaquín apre la bocca, la chiude, e lo odia per avere ragione. Lo odia perché si sente così lontano da sé stesso da aggrapparsi all’ultimo barlume di orgoglio. “Sai cosa?” dice, alzando la voce affinché i corridoi memorizzino le sue parole. “Mi dimetto da direttore. Torno a essere quello che ero, capolinea, quello che so fare senza che la notte mi muoia addosso.”
Le parole corrono come un incendio, raggiungendo Gema prima ancora che Joaquín varchi la soglia di casa. La trova con le mani nervose, a contare banconote che non esistono più.
“Ti sei impazzito?” chiede lei, senza drammi, ma con un terrore vero. “Come pagheremo l’affitto? Come lo spieghiamo a Teo?”
“Preferisco guardarti negli occhi dicendo la verità,” risponde lui, “e preferisco guardarti così. Meglio che guardarmi allo specchio come ora.” La discussione è aspra in superficie, ma sotto, in quel luogo segreto dei matrimoni che si sono amati con imperfezione, scorre un altro sentimento: il sollievo di non dover più fingere.

In negozio, la nuova era inizia con un catalogo di sorrisi taglienti. Chloe ha istituito un sistema di commissioni che trasforma ogni bancone in una piccola trincea. “La miglior venditrice del mese avrà un bonus e la sua foto qui,” annuncia, indicando una parete bianca. L’apparente innocenza del gesto riorganizza gli affetti. Claudia lo percepisce per prima: questa miscela di sapone costoso e sudore porta la competizione quando nessuno l’ha richiesta.
“Non venderemo profumo,” mormora a Manuela. “Venderemo pace.” Manuela annuisce, ma senza assentire veramente. Ha un’altra lotta sotto la pelle, quella con Damián, da quando lui è apparso nella farmacia. Quel giorno di pioggia, quando il cielo si è squarciato proprio mentre lei aveva messo ordine nel suo cuore. Manuela non è più stata capace di nominare ciò che provava, come si nomina la lista della spesa. È qualcosa di diverso dalla passione ingenua e dalla rassegnazione elegante. È il sospetto che il tempo capriccioso a volte restituisca ciò che si è portato via senza preavviso. Lo confessa a Digna, cercando una conferma che non arriva.
“Ti ascolto,” dice Digna, severa, “ma non posso consolarti con ciò che io stessa non capisco.”

Begoña fa la sua parte. Va da Digna con l’umiltà che si riserva alle zie che hanno saputo sostenere, e le spiega la sua idea. Julia come figlia, tutto chiaro, tutto pulito. La risposta è un portone sbattuto senza alzare la voce. “Non puoi portarcela via come un mobile,” dice Digna. “È la sua famiglia, siamo noi. Non ci cancellerai dai registri.” L’infermiera incassa il colpo come si sopportano i dolori che si curano guardando lontano. Esce in strada con gli occhi colmi, chiede un bicchiere d’acqua in una trattoria e lì, per caso o per destino, Maripaz si siede accanto a lei. Ha i vestiti consunti, le mani pulite, l’antica fame. “Non ho bisogno di elemosina,” dice prima che Begoña possa offrirle qualcosa. “Ho bisogno di un’opportunità. A casa Kuna posso portare mani e silenzio. Capisco i bambini. Non li giudico.”
Claudia, che ha sentito tutto, per caso o per volontà, perché sapeva dove ascoltare ognuno, la guarda come si guarda uno specchio che ripete una versione migliorata di sé. Pensa di raccomandarla, pensa alla mancanza di referenze, pensa a quanto sia ingiusto che ci vogliano documenti per certificare la fame di una donna che non ha mai avuto una scrivania. Alla fine decide che a volte la fiducia è il documento. “Vieni domani,” dice. “Se compi due turni di seguito senza lamentele, il posto sarà tuo.” La gratitudine negli occhi di Maripaz è una luce che il negozio non può vendere.
Mercoledì: L’Ascesa di Gabriel e la Verità Nascosta

Mercoledì arriva con la brutalità cerimoniosa delle assemblee azionarie. La francese ha ricevuto istruzioni dal signor Brosart e ha imparato a pronunciare la resistenza come fosse un complimento. Riunisce gli azionisti, sorride con la coreografia di chi si sbarba gli spigoli e pronuncia il nome del nuovo direttore, lasciando a bocca aperta la famiglia. Non è Joaquín, non è Tasio, non è nessuno dei “de la Reina”. È, con somma sorpresa di tutti, Gabriel.
Non ci sono applausi, solo una sospensione dell’aria. L’avvocato, che fin dall’inizio ha giocato a codificare la sua ambizione con la grafia della prudenza, alza la testa appena il necessario. Il suo sguardo percorre Marta, che lo osserva come se cercasse di decifrare la sua lingua; Damián, il cui orgoglio fa un passo indietro prima di avanzare; Andrés, che si infiamma dentro; Chloe, che sembra complice da ore. E poi, misurando ogni sillaba, accetta la carica con condizioni che sembrano virtù: preservare il laboratorio di Toledo, rispettare la memoria di Gervasio, mantenere il legame con la colonia. Nessuno capisce se queste condizioni siano argini o ponti.
Quella stessa sera, Damián chiama Digna per comunicarle il suo cambio di rotta riguardo a Julia. La zia ascolta senza annuire. Julia entra con le sue trecce decise e, quando Begoña le spiega che potrà finalmente essere sua figlia di carta, la bambina piange un pianto limpido, senza paura, e corre ad abbracciare Gabriel con un entusiasmo che lo trafigge come un rimprovero e un’assoluzione allo stesso tempo. Nel suo abbraccio, Julia non sa che sta anche stringendo le viti di un piano segreto che all’improvviso deve essere ricalibrato.

Carmen e David si incrociano di nuovo nel corridoio della fabbrica, con quel pudore squisito di chi si è amato senza una storia ufficiale. Gaspar, che trascina gelosie discrete e paure legittime, lo percepisce da lontano e decide di anticipare la ferita. Invita David a prendere un caffè, parla di calcio e di bollette, è educato e fermo, e alla fine, con un mezzo sorriso, gli espone il suo confine. “Mi stai simpatico,” dice. “E proprio per questo vorrei che non tornassi più a casa mia.” David capisce. Carmen, che aveva sospettato il dialogo, ringrazia in silenzio il pudore con cui i due uomini hanno deciso di essere adulti.
Il giovedì, Chloe avvicina il corpo al telefono come chi avvicina il viso a uno specchio senza luci e chiama Parigi. Vuole revocare la nomina di Gabriel. Vuole persino guadagnare un po’ più di potere in cambio di obbedienza perfetta. La risposta dalla Francia è una pietra levigata: “No?”. Allora attiva il suo piano B, che è più elegante: avvolgere Marta nella seta. Si dà appuntamento con lei nel retrobottega del negozio e le confessa, come chi rivela un amore antico, che in realtà Marta era stata la sua prima opzione per il posto, che con lei l’azienda avrebbe avuto sensibilità locale, che i francesi a volte non annusano bene le sfumature della piazza. Marta ascolta, metà lusingata, metà consapevole della manovra. “Non coglierò contro la mia famiglia,” dice. “Ma medierò affinché non diventiamo un’appendice. Se è questo che cerchi, chiamalo pace.”
Pace. Sorride Chloe. È il profumo più caro e quello che si conserva peggio. Alla stessa ora, Manuela non può più nascondere ciò che prova per Damián. Non glielo dice ancora, ma nella farmacia inizia una pulizia meticolosa, di quelle che sono scusa e metafora, e si sorprende a canticchiare una canzone che non sapeva di ricordare. Begoña la vede e capisce. Le mette una mano sul braccio, il gesto esatto che separa la compassione dal giudizio. “Non sei sola,” dice semplicemente.

Joaquín, dal canto suo, riceve un’inaspettata proposta di lavoro. Una piccola fabbrica di saponi artigianali vicino al fiume cerca qualcuno con mestiere e dignità. Non c’è glamour, non ci sono tappeti rossi, ma ci sono finestre aperte e un tavolo di legno sotto una vite. Immagina Teo correre lì e per la prima volta da mesi il suo animo si distende. La sera lo racconta a Gema. Discutono apertamente dell’economia, dell’affitto, della scuola. E alla fine, esausti, ridono con quella risata antica che si trova solo quando si lotta per davvero.
Più tardi, una chiamata inquietante colpisce Andrés. Una voce anonima, o mascherata da anonima, gli dice che prima dell’esplosione c’era una chiave usata quando non doveva. “Cercate nel registro di manutenzione. Non fidatevi delle fotografie,” dice la voce. “Cercate chi le ha fatte.” L’aria si densifica di nuovo. Gabriel, d’altra parte, si incontra con Chloeé in un caffè con tavolini stretti. Non flirtano, non ne hanno bisogno. Fanno qualcosa di peggio: si capiscono. Il futuro dell’azienda ha già due firme invisibili.
Venerdì: La Verità Spezzata e l’Ombra del Passato

Il venerdì si apre con un’irrequietezza scintillante. In negozio, la valanga Brosart arriva in scatoloni che fanno rumore di catena. Le commesse accolgono la novità con l’emozione triste di chi riconosce che la moda di un altro paese odora di strano nella propria casa. Claudia tenta di ordinare il caos. Luis discute con una bottiglia come se dentro fosse racchiusa la sua biografia. Marta calcola cosa si può salvare, e Gabriel, dall’ufficio, impara a camminare su una fune che lui stesso ha teso.
Prima di mezzogiorno, chiama Andrés. “Accetterò l’incarico con condizioni,” dice, intrecciando la mansuetudine. “Ci saranno licenziamenti. Non li ho inventati io, ma non posso evitarli e ho bisogno che durante questo periodo tu ti fidi del fatto che non sono qui per distruggere ciò che ami.”
“La fiducia non si chiede come un anticipo,” replica Andrés con un disagio che assomiglia alla tristezza. “Si guadagna come uno stipendio.” Gabriel riattacca lentamente. In tasca, la chiave che non doveva esistere pesa come un macigno. A metà pomeriggio, María lo affronta nel corridoio e parla della lettera di Enriqueta. Lo fa senza giri di parole, con quel coraggio che solo la stanchezza sa dare. Gabriel ascolta la menzione e un vecchio allarme si accende dietro i suoi occhi. Enriqueta. Remedios, la catena segreta di donne che sapevano troppo. Sente per la prima volta da giorni la minaccia respirare dietro il suo orecchio e decide: “Devo uscire un momento,” annuncia con la cortesia di chi chiede permesso per spegnere un incendio che lui stesso ha acceso.

Prima di andare dove deve andare, passa dal laboratorio. Luis dice: “Lutterò per il laboratorio di Toledo. È la nostra anima, anche se suona come uno slogan.” “Non dire nostra, se non è tua,” replica il profumiere senza alzare la voce. “Ciò che odora di verità non ha bisogno della parola nostra.” Gabriel non insiste. Impara in fretta a non combattere battaglie perse. All’ingresso incrocia Gaspar. Un cenno del capo, un riconoscimento di forze. E poi, finalmente, guida verso il carcere. Il tragitto verso l’edificio grigio è una sorta di tunnel temporale. Ogni semaforo gli restituisce una scena: la sala caldaie, Parigi, il sorriso di Chloe, la risata di Julia quando le hanno detto “Figlia”, il gesto di Begoña che le stringe la mano sul tavolo, e soprattutto il nome di Remedios, che cresce come un cardo che nessuno estirpa. Remedios sa. Remedios custodisce un filo che potrebbe disfare il tappeto. Non si tratta di ucciderla. Non ancora. Non letteralmente, ma di cancellarla, spostarla di modulo, ottenere il suo trasferimento, comprare il suo silenzio con un avvocato, con una falsa promessa, con una minaccia ben amministrata. Farla scomparire dai racconti.
Nella garitta, il funzionario alza lo sguardo. “Chi viene a trovare?”
“Remedios,” dice Gabriel, e la parola, uscendo, gli si attacca ai denti come fosse dolce e amara al tempo stesso. Lo fanno passare. La sala è la stessa. Sedie di plastica, un tavolo scolorito, una luce bianca che rivela più di quanto dovrebbe. Remedios arriva, guidata da una funzionaria. Ha i capelli raccolti con una molletta economica e gli occhi ben aperti, come se la reclusione le avesse insegnato a guardare tutto per l’ultima volta.
“Bene,” dice l’avvocato che corre per salvare gli altri. “Per salvare me stesso.” Gabriel sorride senza denti. “Vengo a chiuderti la bocca,” dice con morbidezza. “Con cosa?” “Con colonia.” Remedios si avvicina e aspira. “Teatrale. Mi piace quella che indossi. Odora di denaro che non è passato per casa. A me non comprano più i profumi, avvocato. Mi comprano le certezze.”

“Le certezze sono economiche finché qualcuno non ci crede,” replica lui. “Faremo in modo semplice. Ci sarà un trasferimento in una destinazione dove i nomi non significano nulla e un fascicolo in cui tu non significhi nulla. O possiamo farti significare troppo.” Remedios non sbatte le palpebre. Ha vissuto abbastanza per sapere che il potere si presenta quasi sempre con voce educata. “E se parlassi prima che mi trasferiscano?” chiede. “E se raccontassi a un signore con gli occhiali ciò che ho visto? La chiave, l’ora, l’uomo arrivato cinque minuti prima per dire che era in ritardo.”
Gabriel non si muove. L’aria all’improvviso pesa come una coperta bagnata. “Nessuno ti crederà,” dice. “Non sbagliarti, ragazzo. Bene, a me credono le donne.” Remedios sorride e nel suo sorriso ci sono denti rotti e dignità. “E in questa città le donne stanno imparando a non tacere. Il tuo tempo si sta esaurendo come le mèches che fa Tasio.”
Allora, propone Gabriel, “ci sarà da fare qualcos’altro.” Non specifica. Non serve. Nelle storie di uomini come lui, “qualcos’altro” è sempre un ponte verso il vuoto con parapetti di seta. Remedios lo capisce. Lo capisce anche che per un secondo, un secondo che nessuno ha annotato, sembra aver paura.

Nella colonia, alla stessa ora, la vita fa i suoi conti. Begoña è in cucina da Digna a preparare una zuppa per Julia con una devozione che non si compra. La zia lancia la sua protesta finale. “No, non mi fido di Gabriel, non mi piace il suo modo di arrivare sempre con la soluzione in mano e il problema in tasca.” Begoña la lascia parlare. Tace come si conserva il pane per la merenda, sapendo che in quella riserva c’è la forza. “Non ti chiedo di fidarti di lui,” dice infine. “Ti chiedo di fidarti di me.” Digna, che ha cresciuto così tante persone che a volte confonde la tenerezza con l’autorità, allenta le spalle. Non promette nulla. A volte la vita si vince con i pareggi.
Luis nel laboratorio ha deciso che se Gabriel si crede capace di salvare l’essenza di Toledo, dovrà dimostrarlo con atti, non con parole. Gli insegna una formula a metà, lo sfida a annusare senza etichette, lo lascia solo con un flacone. “Annusa,” gli dice. “E dimmi cosa vedi.” Gabriel chiude gli occhi e aspira. Vede un cortile con vasi e l’ombra di una donna che annaffia all’ora della siesta. Vede una pelle, vede, anche se non lo confesserà mai, la nuca di Begoña. Apre gli occhi e con un’onestà che lo sorprende dice: “Vedo casa.” Luis annuisce. A volte la verità appare limpida nel linguaggio degli odori, soprattutto quando il bugiardo abbassa la guardia senza accorgersene.
Marta, dal canto suo, porta a Damián un rapporto con numeri che spaventano e soluzioni che non bastano. Si siedono entrambi nell’ufficio che ha visto passare decenni e parlano da soci e da familiari. Damián non piange, ma il modo in cui tiene la penna, come chi afferra un remo per attraversare un fiume che non sa più se esiste, è il suo pianto privato. Gema torna dal negozio con errori sciocchi e una stanchezza vera. Claudia la chiama in disparte, le dà un bicchiere d’acqua, ascolta la sua paura e le ricorda, senza paternalismo, che la trincea in cui si trovano non può inghiottirle. Gema la ringrazia con poche parole e uno sguardo lungo. Teo mostra loro un disegno in cui suo padre aggiusta macchine gigantesche con una chiave inglese grande come la luna. Le due ridono. L’infanzia ha ancora credito.

Maripaz fa il suo secondo turno a casa Kuna. Non piange perché non c’è tempo. Cambia pannolini con efficienza e tenerezza. E quando un bambino le afferra il dito con una forza insolita, sente che per la prima volta da anni qualcuno l’ha scelta. Quella notte, prima di addormentarsi, ripete a bassa voce il suo nome per ricordarsi che lo ha.
E Andrés, che è la domanda con le gambe, sale all’archivio di manutenzione. Chiede i registri del mese dell’esplosione. Li ripercorre con quella meticolosità che prima riservava ai cataloghi delle fiere. Trova orari che non quadrano, firme che sembrano la stessa con un’altra mano. Trova soprattutto una fotografia in cui l’ombra di una persona punta verso una valvola. “Non fidarti delle fotografie. Cerca chi le ha fatte,” gli aveva detto la voce. Sul retro, a matita, una iniziale che gli gela lo stomaco. Non è una G. È una R. Remedios. Sente allora, con una chiarezza che non ammette scuse, che il prossimo movimento di Gabriel non sarà economico o corporativo, sarà umano. E che se non arriverà in tempo, l’umano diventerà cadavere. Esce nel cortile, respira aria. Il telefono vibra. Un messaggio di María. “Dobbiamo parlare, non solo della lettera.” Andrés sente per la prima volta da settimane che non è l’unico a camminare a tentoni verso una porta che forse non si aprirà.
In carcere, Gabriel parla di nuovo. “Non sono qui per giocare,” dice. “Sono qui per chiudere un capitolo.” “Se collabori, ti trasferirò in una destinazione dove avrai un nome nuovo e una routine nuova. Se no, il capitolo ti chiuderà.” “I capitoli non si chiudono così,” replica Remedios, appoggiando i gomiti sul tavolo e avvicinandosi. “Si chiudono quando qualcuno decide di raccontare ciò che ha vissuto. E io ho deciso di raccontarlo.”

“A chi?”
“Alla bambina che eri una volta?” la schernisce lei. “Non ti rendi conto? Non vengo dal tuo mondo. E proprio per questo posso raccontare senza perdere nulla.” C’è un’etica di guerra in questo scambio che entrambi capiscono. Gabriel, stanco della precisione, lascia sfuggire una frase non pianificata. “Ci sono modi per sparire,” dice, “che non lasciano segno.” Remedios si ritrae, come se avesse appena riconosciuto l’animale esatto che ha di fronte. Per la prima volta, i suoi occhi si oscurano. “Allora sei uno di quelli che fanno cadere gli altri dalle scale,” mormora. “Di quelli che lasciano le porte socchiuse, di quelli che chiamano a mezzanotte affinché nessuno senta il soccorso.”
La funzionaria annuncia la fine del tempo di visita con uno schiocco secco. Remedios si alza. Gabriel anche. Per un secondo sono abbastanza vicini da annusarsi la storia. Lei parla a voce bassissima. “Se mi uccidi, parleranno le mie lettere.” Lui non si sorprende. “Allora cercherò le tue lettere,” risponde, “e le brucerò.”
“La carta puzza sempre di qualcosa quando brucia,” dice Remedios. “Te ne accorgerai dall’odore.” Se ne va senza voltarsi. Gabriel, per la prima volta da molto tempo, sente che il piano, quella geometria in cui confidava più delle persone, si sta liquefacendo e che tutto il suo successo dipende dall’imparare a nuotare senza fare rumore. Esce nel cortile grigio. Il cielo è basso, come quando la città odora di temporale. A quell’ora, nella colonia, Julia corre con una lettera in mano, un disegno, meglio dire, con cuori storti e una casa grande per mostrarla a Begoña. Digna osserva la scena dalla soglia e, volente o nolente, sorride. Marta, a qualche isolato di distanza, conta il cambio di una giornata troppo lunga.

Luis chiude il flacone della formula che profuma di casa e si concede il lusso di aspettare. Joaquín, Gema e Teo cenano un piatto umile con la solennità dei manicaretti che sanno di decisione. Carmen e Gaspar condividono un silenzio confortevole. Claudia scrive il nome di Maripaz su un foglio con gli orari di casa Kuna. Manuela, nella farmacia, spegne la luce con un tremore nelle dita che non è stanchezza. E Andrés, camminando velocemente per strada, capisce finalmente che per salvare ciò che ama non basta nominare il sospetto. Bisogna arrivare prima che qualcuno cancelli la prova.
Il venerdì si chiude con il rumore di una porta di metallo. Dentro, Remedios respira profondamente. Fuori, Gabriel mette la mano in tasca e la stringe intorno a una chiave che non è in nessun inventario. Non c’è musica, non ci sono frasi finali, solo un odore. Misto di carta vecchia, sudore trattenuto e pioggia che si avvicina. Un odore che in questa città significa sempre la stessa cosa: la verità. A volte arriva tardi, ma arriva. E chi tenta di cancellarla finisce, prima o poi, per puzzare di ciò che è. M.