La Forza di una Donna – Sarp di fronte al destino, Arif trova una speranza.

Istanbul trema sotto il peso delle verità svelate e delle speranze nascenti. In un intreccio di destini ineluttabili, la resilienza femminile emerge come l’unica vera forza motrice, capace di riscrivere le regole anche quando il caos sembra sovrano.

La tensione tra Bahar e Sarp è palpabile, un abisso insormontabile creato dalle bugie e dalle scelte che li hanno condotti su sentieri separati. L’aria vibra, densa come prima di un temporale. Lo sguardo di Bahar, fermo e incisivo, trafigge il silenzio. Le sue parole, taglienti come una lama, risuonano con una certezza che non ammette appello: Sarp deve consegnarsi alla polizia. Non c’è rabbia, non c’è pietà, solo la cruda consapevolezza di una decisione irrevocabile. In quell’istante sospeso, il loro intero passato sembra concentrarsi in un unico, soffocato respiro, in attesa di una risposta che potrebbe sigillare il loro futuro.

Nel frattempo, altrove nella metropoli pulsante, Enver e Atice camminano fianco a fianco, le loro anime avvolte da un manto di rassegnazione e rimpianto. Le parole di Enver scivolano lente ma incisive, sussurrando una verità dolorosa: la fiducia, quella che hanno perduto e che ora li affligge, era l’unica ancora di salvezza. Atice vorrebbe rispondere, esprimere il turbine di emozioni che la attanaglia, ma un suono secco e improvviso interrompe quel fragile momento di connessione. Il suo sandalo si spezza, un dettaglio futile ma carico di un simbolismo schiacciante. Si china, umiliata, avvertendo gli sguardi curiosi della gente. Enver, tuttavia, continua a camminare, indifferente, lasciandola sola con un misto di dolore e vergogna che le stringe il petto. Il suo passo zoppicante verso casa è più gravato dal peso dell’umiliazione che dalla scarpa rotta.


Aprendo la porta del loro appartamento, Atice la trova già lì, Sirin, un’ombra in attesa. Con una voce melliflua e un sorriso sottile che nasconde un veleno sottile, Sirin le chiede quale tipo di persona creda di essere. Quel sorriso, una minaccia più che un gesto, ricorda ad Atice il suo segreto: non ha rivelato a Enver la verità sul rapimento dei bambini. Se lo avesse fatto, il suo sguardo su di lei sarebbe cambiato per sempre. Sirin, inclinando la testa, allarga quel sorriso che ferisce più di ogni parola, sussurrando che forse, solo forse, Enver la ama ancora. Atice, incapace di rispondere, si ritira nella sua stanza, chiudendo la porta. Il click della serratura è il suono di un respiro trattenuto troppo a lungo, pesante, inevitabile, carico di tutto ciò che non può più esprimere.

Nel cortile silenzioso della scuola, Bahar affronta l’insegnante dei suoi figli. Il viso della donna tradisce un imbarazzo profondo. Dalle telecamere di sorveglianza, il volto di chi ha portato via i bambini rimane indistinguibile. Le scuse dell’insegnante cadono nel vuoto mentre Bahar, con parole precise e prive di tremori, impone un nuovo ordine: da questo momento, i suoi figli non dovranno più uscire durante la ricreazione. Nessuno di loro dovrà varcare la soglia finché la verità non sarà completamente ristabilita. Le telecamere dovranno essere monitorate con la massima attenzione. La sua voce, pur non urlando, porta il peso di una minaccia dolce e ferma. L’insegnante annuisce, quasi spaventata, promettendo obbedienza. Bahar si allontana, il passo rapido, la mente già altrove, verso un colloquio di lavoro in un negozio di abiti da sposa. Un sorriso fugace le increspa le labbra, un tentativo di ricomporsi, di fingere per qualche minuto di non portare il fardello di quell’immenso dolore.

Tornata al palazzo ore dopo, la stanchezza le pesa addosso, ma la luce che arde dentro di lei è tutt’altro che spenta. Busca Elizida, un bisogno impellente di parlare, di respirare, di non sentirsi più sola. Le tre donne si siedono vicine, il tè ancora caldo sul tavolo. Bahar le guarda entrambe, poi parla, la voce carica di una nuova consapevolezza. La notte precedente ha capito una cosa: da oggi starà bene. Non è una speranza, non è un tentativo di autoconvincimento, è una certezza. Ha ritrovato la salute, i suoi figli sono al sicuro, e questo, ora, è sufficiente. Non ha più un marito, ma i suoi bambini hanno ancora un padre. E se quel padre non saprà tirarsi fuori dai guai che si è creato da solo, lei non permetterà che questo li tocchi. Ha imparato a vivere senza di lui, e può continuare così. Le sue parole sono ferme, decise. Se qualcuno le chiedesse come si sente, risponderebbe con una sola parola: libera. Per troppo tempo ha vissuto nell’incertezza, senza sapere cosa pensare, cosa dire, come respirare. Ora tutto è nitido. Deve solo proteggere i suoi figli e non lasciarsi più trascinare dal dolore di un uomo che ha scelto un’altra vita. Poi lo dice, chiaramente, quasi liberandosi di un peso enorme: il capitolo Sarp è chiuso.


Ceida la guarda, commossa, e le stringe la mano. “Non sapevo se avresti mai trovato la forza di rialzarti,” ammette. Bahar sorride, un sorriso breve, stanco, ma incredibilmente vero. “La forza delle donne,” spiega, “non la conosci mai finché la vita non ti mette in ginocchio.” Ha sofferto per suo marito per anni, ma ciò che è accaduto ieri è stato come un funerale silenzioso, un addio senza fiori né lacrime, solo la certezza che finalmente lo ha seppellito dentro di sé. Jelitz la invita a dare ancora una possibilità a Sarp, ad ascoltare ciò che ha da dire, ma Bahar scuote dolcemente la testa. Non è più il tempo di capire o giudicare, è tempo di andare avanti.

Bahar racconta alle amiche del suo colloquio di lavoro. Il negozio è vicino, il proprietario è una persona corretta e Arifa ha parlato bene di lei. Non dovrà spendere soldi per i trasporti e lo stipendio è buono. Forse, per una volta, le cose stanno andando nella giusta direzione. Ceida ed Elite l’abbracciano, sincere e felici per lei. Bahar aggiunge che andrà a prendere i bambini a scuola con Peyami. Ceida decide di accompagnarla, perché deve parlargli di uno spazio libero al bazar dove vendere le sue camicie. Jelit la prende in giro, suggerendo che probabilmente ha altre intenzioni, ma Ceida ribatte che non c’è nulla di male, dopotutto sono sposati. Le tre ridono, stringendosi in un abbraccio rapido, un istante di normalità nel caos.

Nel frattempo, Enver è solo su una panchina del parco. Le spalle curve, lo sguardo perso, piange, schiacciato dal peso di tutto ciò che ha scoperto. Con mani tremanti, prende il telefono e chiama Arif. Con voce rotta, gli chiede aiuto, vuole che porti via la sua macchina da cucire da casa di Bahar. Arif risponde che se ne occuperà lui, che non è un problema. Enver trattiene a stento le lacrime e lo ringrazia per tutto ciò che fa. Arif, sentendo la voce spezzata dell’amico, gli chiede se sta bene. Enver esita a rispondere, ma la voce gli si spezza del tutto, scoppia a piangere più forte e confessa che no, non sta affatto bene. Arif prova a farsi dire dove si trova, ma Enver taglia corto, dice che starà bene, che parleranno meglio quando porterà la macchina. La voce gli trema, poi la linea si interrompe.


Altrove, Munir stende sul tavolo una serie di fotografie: case, cortili, quartieri lontani. Le mostra a Sarp, spiegando quali siano più sicure per Bahar e i bambini, quali abbiano buoni vicini o una stazione di polizia nelle vicinanze. Poi alza lo sguardo e gli chiede quanto tempo pensa di tenerli nascosti. Se dovessero restare a lungo, serviranno nuove identità. Sarp scuote la testa, non vuole che Bahar e i bambini vivano come lui. Sarà solo finché il pericolo non sarà passato. Munir ribatte che il pericolo finirà solo con la morte di Nesir, ma Sarp è convinto che sia meglio che nessuno li veda per evitare un nuovo rapimento. La decisione viene rimandata a domani. Munir raccoglie le foto proprio mentre Piril entra nel salone. Nota i fogli sparsi e chiede se siano per Bahar e i bambini. Alla risposta di Sarp, non replica, si gira e se ne va, il volto duro, il passo deciso.

Nello stesso momento, Bahar bussa alla porta di Ceida. Apre Jelita, curata e vestita con attenzione. Bahar la guarda e sorride: è splendida. Jelita le dice che ha un colloquio di lavoro importante. Poco dopo arriva Ceida, pronta ad accompagnarla a scuola. Anche lei è truccata, elegante. Bahar la osserva e accenna un sorriso, mentre Jelita ironizza dicendo che probabilmente vuole impressionare Peyami. Ceida finge di offendersi, ma risponde con naturalezza che non ci sarebbe nulla di male. Dopotutto sono sposati. Le risate riempiono il corridoio, e per un momento tutto sembra più leggero. Bahar augura buona fortuna a Jelita, poi scende insieme a Ceida. Davanti al palazzo salutano Peyami e si avviano verso la scuola.

Dall’altra parte della città, Nezir è seduto nella sua stanza, immerso nella penombra. La sigaretta brucia lenta tra le dita, il fumo sale piano, denso, gli occhi fissi nel vuoto. Dice ad Asim che è stanco di aspettare, che non ha più pazienza. Questa volta, annuncia con calma glaciale, se ne occuperà lui. Ammette di voler chiudere la faccenda una volta per tutte per tornare alla sua vita. Spiega che Bahar e i bambini verranno portati a casa sua, non saranno consegnati a nessuno se non al loro padre. Sarp sarà costretto a venire da lui, e lì finirà tutto. Ordina ad Asim di organizzare un piano non solo buono, ma perfetto. Poi potrà pensare a Suat. Asim, esitante, gli chiede di Piril e dei bambini. Nezir lo rassicura: a loro non farà nulla. Andranno avanti con le loro vite, ma resteranno rovinati. Asim lo osserva senza osare contraddirlo.


Atice è seduta nel salotto, rigida, le mani intrecciate sul grembo. La porta si apre. Enver entra con passo pesante e chiede dov’è Sirin. Lei risponde che è uscita e lo invita a sedersi. Quando si ritrovano uno di fronte all’altra, Atice prende coraggio e gli spiega che quei soldi li ha presi da Sarp, non per sé, ma per i bambini. Non voleva che patissero la fame. Dice che, in fondo, Sarp è il loro padre e che lei ha creduto che fosse un loro diritto. Gli chiede se davvero la ritiene capace di rubare agli altri. Enver resta immobile, poi afferma che quei soldi andranno restituiti. Ciò che hanno già speso verrà considerato un debito. Ma mentre parla, vede il volto di Atice irrigidirsi, un’ombra di paura attraversarle gli occhi. Il sospetto gli sale alle labbra e, con voce dura, le chiede dove siano finiti quei soldi. L’aria si fa pesante, il silenzio carico come un tuono in arrivo.

Atice cede e confessa: Sirin ha scoperto il nascondiglio dei soldi e li ha spesi tutti. Enver esplode, la voce gli sale dalla gola come un boato. Cammina nervoso per la casa, urla che ne ha abbastanza, che non sopporta più nulla. Le pareti tremano sotto il suo sfogo. Atice, in silenzio, prova a calmarlo, ma le sue parole si perdono nel frastuono.

Intanto, Bahar, Ceida e Peyami sono davanti alla scuola in attesa. La campanella suona, il portone si apre e Nisan appare correndo felice, abbraccia uno per uno. Poco dopo entrano a prendere Doruk e lo accompagnano fuori. Il bambino si ferma, incantato, davanti a un neonato in carrozzina. Bahar si china e gli chiede cosa stia pensando. Doruk domanda se anche i suoi fratellini erano così piccoli e belli. Bahar sorride e risponde che erano un po’ più grandi, ma ugualmente dolci. Ceida aggiunge che, belli quanto vogliono, non saranno mai quanto Doruk. Le guance del piccolo, rotonde e luminose, attirano lo sguardo di tutti. Proprio come quelle di Peyami, scherza Ceida. Lui arrossisce e resta zitto. Ridono, poi salgono insieme in macchina per il viaggio di ritorno.


Quando arrivano al quartiere, Bahar ringrazia Peyami. I bambini scendono, corrono avanti. Lei si ferma un istante. Arif è poco più in là, chiacchiera con alcuni vicini, sereno. Bahar lo osserva con affetto, poi riprende il cammino insieme a Ceida e ai figli. Mentre si salutano davanti agli appartamenti, Jelita compare di corsa. La voce piena di entusiasmo grida che il colloquio è andato benissimo, che il capo è stato gentile e ha apprezzato il suo modo di essere. Racconta che si tratta di un negozio di abiti da sposa e che spera di ottenere il posto. Lei non sa che è lo stesso dove si è presentata anche Bahar. Jelita aggiunge di non avere certezze. La receptionist le ha detto che prima di lei era stata ricevuta un’altra candidata che, però, si era presentata male, trascurata, e questo l’aveva penalizzata. Lei, invece, si era preparata con cura, vestita bene e il colloquio era filato liscio. La sua voce vibra di speranza mentre gli occhi brillano. Jelita scherza con Ceida: se un giorno si sposerà di nuovo con Peyami, le regalerà lei l’abito da sposa.

Bahar, incuriosita, le chiede in quale negozio si sia presentata per il colloquio. Jelita descrive l’atelier e il proprietario, il signor Camille. In un attimo, tutte capiscono. È lo stesso negozio in cui anche Bahar ha fatto domanda. Lo stupore lascia spazio a un silenzio imbarazzato. Jelita si sente mancare, dice che andrà subito a parlare con il capo per ritirarsi, ma Bahar la ferma, la stringe forte e le dice che non deve assolutamente sentirsi in colpa. “Accettalo!” le sussurra prima di congedarsi e rientrare a casa. Una volta dentro, invita i bambini a lavarsi le mani, poi si accorge che la luce manca soltanto nel suo appartamento. L’oscurità la sorprende, ma cerca di rassicurare i piccoli. Domani chiamerà il dipartimento dell’elettricità.

Nello stesso momento, Piril apre la porta a Munir. L’uomo le porge un telefono. È un apparecchio che Sarp ha chiesto per poter contattare Bahar. Piril lo guarda furiosa e le chiede cosa sia accaduto. Munir racconta che Bahar si è spaventata a morte, tremava e piangeva senza sosta. Persino l’autista che l’ha riportata a casa ne è rimasto turbato. In quel momento, Sarp esce dal bagno, chiede spiegazioni. Piril gli dice che Munir ha portato un telefono. Sarp lo prende e domanda che fine abbia fatto l’altro. Munir spiega che sarà consegnato a Enver, poi se ne va. Rimasti soli, Piril dice al marito che se può fare qualcosa per aiutarlo con Bahar, deve soltanto dirglielo. Sarp le stringe la mano, grato.


Intanto, Atice aiuta Enver a sistemare la bottega, cerca di rassicurarlo: andrà tutto bene. Ma lui ribatte che deve avvisare subito i negozianti del quartiere che è tornato, perché resta l’unico vero sarto. Atice gli rivela che mentre era via, il figlio del fruttivendolo ha aperto una sartoria. Enver si irrigidisce, poi dice soltanto che ognuno deve trovare la sua strada e che il ragazzo è educato, quindi gli augura buona fortuna. Atice nota il cartello improvvisato che Enver ha preparato su un pezzo di cartone per pubblicizzare il suo ritorno. Propone di farne fare uno migliore, ma lui ribatte che bisogna evitare spese inutili. Esce e lo appende alla finestra.

Un’auto si ferma davanti a lui. Un uomo scende e gli consegna una busta, dicendo che viene da Sarp e che è molto importante. L’auto riparte in fretta. Enver corre dietro urlando che non vuole nulla da quell’uomo, che non sono mendicanti. Rientra in casa furioso. Atice apre la busta. Dentro c’è un telefono con il caricabatterie e un biglietto. Sarp scrive che non esiste un modo più sicuro per comunicare con Bahar. Arif domanda cosa faranno adesso. Enver scuote il capo, non lo sa. Proprio in quel momento arriva Arif con alcuni uomini che portano dentro la macchina da cucire. Dopo che l’hanno sistemata, Arif chiede a Enver di uscire con lui un momento. Enver indossa il cappotto e lo segue. Mentre camminano, Arif gli fa notare che il suo cartello non ha un bell’aspetto. Enver risponde che non importa. L’amico insiste e gli chiede cosa sia accaduto quando lo chiamò per la macchina da cucire. Enver sospira. È sempre la stessa storia. Quando le cose sfuggono al controllo, è difficile riprendersi. Arif propone di spostarsi in un posto più tranquillo per parlare. Arrivano in un piccolo ristorante, si siedono e Arif rivela che poco prima che lui arrivasse a casa sua, un uomo gli aveva consegnato una busta ed era andato via. Arif chiede a Enver cosa ci fosse nella busta. Enver risponde che Sarp ha mandato un telefono e una lettera in cui chiede di consegnarlo a Bahar. Arif resta serio, riflette un istante, poi propone di portarlo lui stesso a Bahar quando tornerà a casa, ma Enver scuote la testa. Potrebbe essere un’altra trappola, come quella volta in cui telefonarono all’hotel fingendo fosse Sarp e invece non era lui. “Oggi spiano tutti attraverso i cellulari,” mormora Enver. “Forse vogliono farlo anche con Bahar.” Arif si fa preoccupato e chiede se allora preferisce nascondere la verità a Bahar, ma Enver ribadisce che non oserebbe mai mentirle. Arif propone un’altra strada: chiamare Sarp e verificare se sia davvero lui. Enver accetta, gli consegna la busta e lo invita a inserire il codice scritto nella lettera. Poi aggiunge che gli passerà il telefono perché conosce bene la sua voce. “Gli dirò solo che volevo confermare la sua identità e poi riattaccherò,” dice Enver. Arif compone il numero e mette il vivavoce. Una voce risponde subito: “Allegra”. È Sarp, che saluta convinto di parlare con Bahar, ma Enver lo interrompe: “Non è lei. Volevo solo confermare che fossi tu.” Sarp ribatte che non potrebbe essere nessun altro, che ha persino mandato una lettera scritta di suo pugno. Enver lo blocca, ricordandogli che Bahar aveva già ricevuto un messaggio falso. Le avevano dato appuntamento e subito dopo avevano tentato di rapire i bambini. Le avevano mostrato Piril con i suoi figli per farle credere che lui avesse un’altra famiglia. “È per questo che ti sto chiamando adesso,” conclude Enver e, senza lasciargli il tempo di rispondere, chiude la chiamata. Sarp prova a richiamare più volte senza successo. Cammina agitato, incredulo. Adesso Bahar sa di Piril e dei bambini, non riesce a capacitarsene.

Il salotto è immerso in una calma finta. Atice, curva sulla sua sedia, lascia scivolare i ferri della maglia tra le dita, cercando rifugio in quel gesto ripetitivo. La porta della camera si apre di scatto, Sirin esce. Gli occhi lucidi di sospetto. “Dov’è papà?” domanda Atice senza alzare lo sguardo. Risponde che è uscito a fare una passeggiata, non si sentiva bene. Ma Sirin stringe le labbra, non ci crede. “Con Arif, vero? Tu lo sai.” La madre resta ferma. La voce trattenuta in gola. Alla fine, taglia corto: “Non ti dirò nulla. Perché se parlassi, la prima cosa che faresti sarebbe correre da Sarp.” Sirin la fulmina con uno sguardo tagliente, poi, come se nulla fosse, chiede: “Dov’è l’asciugacelli?” Atice replica con amarezza che si trova dove lo lascia sempre. Sirin sbatte la porta e la chiude a chiave dietro di sé. Il silenzio ricade pesante, e Atice resta sola con i suoi pensieri.


Altrove, Bahar si è assopita sul divano, ma un bussare deciso la risveglia. Si trascina alla porta e trova Arif sull’uscio, l’aria seria, una busta in mano. “Anche a te manca la corrente?” chiede. Bahar sospira. Forse un guasto, controllerà domani. Ma Arif le porge la busta. Dentro c’è un telefono e un foglietto con un codice di sicurezza. “Viene da tuo marito,” dice piano. “Io e Enver l’abbiamo verificato. È davvero lui?” Bahar resta immobile con quell’oggetto in mano, come se bruciasse. Lo ringrazia con un filo di voce, e Arif si congeda, lasciandola nel silenzio carico di domande.

All’hotel, Sarp cammina avanti e indietro come una bestia in gabbia. Ha scoperto che Bahar sa la verità sulla sua nuova famiglia, che i suoi figli sono stati presi di mira. Quando Piril entra, lo trova con un cellulare sconosciuto tra le mani. “Cosa è successo?” chiede, cercando di mascherare la tensione. La voce di Sarp si spezza. “I bambini sono stati rapiti a scuola.” Piril finge stupore, punta il dito contro Nezir, ma Sarp non l’ascolta. Le parole di Enver gli rimbombano in testa, le immagini del passato riaffiorano. Ricorda quel giorno all’hotel, quando Piril si era attardata con i gemelli nella hall, attirando l’attenzione. Lui l’aveva rimproverata. Lei aveva sorriso con leggerezza. Adesso, quel sorriso gli torna davanti come un indizio. Sarp la fissa, gli occhi duri, e l’accusa: “Sei stata tu a orchestrare tutto. Volevi che Bahar scoprisse la verità.” Piril, nervosa, lo deride: “Sei pazzo.” Ma il silenzio che segue la inchioda. Sarp la incalza, alza la voce, pretende la verità, ed un tratto capisce. Lei era rimasta lì apposta con i bambini perché Bahar li vedesse. Piril non replica, non può, è stata smascherata. Sarp spalanca l’armadio, getta vestiti in una valigia con gesti rapidi. Piril si aggrappa a lui, lo implora di non lasciarla, di fermarsi a parlare, ma lui non la ascolta. In quel momento, il telefono squilla. Sul display compare un nome che gli mozza il respiro: Bahar. Piril, furiosa, esce sbattendo la porta.

Sarp risponde subito, la voce che trema. “Stai bene? E i bambini?” Bahar è fredda come acciaio. “Non so se i figli siano al sicuro. Voglio solo sapere da lui se le loro vite siano in pericolo. Non mi interessano spiegazioni, non voglio più bugie, solo la verità.” Sarp prova a chiederle un incontro, ma lei lo interrompe, categorica: “Dimmi soltanto se i miei figli corrono un rischio. Nient’altro.”


Un lungo silenzio. Sarp si siede sul bordo del letto, il volto affondato tra le mani. “Non credo siano in pericolo,” ammette piano, ma tra qualche giorno li porterò via in un posto dove nessuno potrà toccarli.” La sua voce è un sussurro rotto, un giuramento disperato che si perde nella stanza vuota. Sarp parla a bassa voce, quasi fosse un ordine a se stesso: “Devono muoversi con cautela, non uscire mai da soli, aspettare il momento giusto.” Promette che presto troverà il modo di portarli lontano da tutto. Bahar, invece, è di ghiaccio. Lo interrompe e gli dice che con lui non andrà da nessuna parte. Non vuole più ascoltare bugie. “L’uomo che avevo amato non esiste più.” Sarp prova a ribattere, dice di essere lo stesso, ma Bahar non si lascia convincere. Ricorda che Enver le ha parlato di un omicidio, di un errore che lui ha commesso e che la verità deve arrivare in tribunale. “Se sei innocente, sarà la giustizia a stabilirlo.” Lui scuote il capo, dice che non può consegnarsi. “Allora lo farò io,” lo taglia corto Bahar, prima di chiudere la chiamata con un gesto secco. Mentre lui resta con il telefono in mano, sconvolto, Munir sorride nell’ombra. Stava ascoltando ogni parola. Quel cellulare era stato preparato proprio per questo, per spiare ogni conversazione.

Sarp prova a richiamare Bahar, ma la linea resta muta. Nella sua casa, Bahar spalanca la finestra. L’aria della sera le entra addosso, fredda, e giù in strada vede Arif al bar. I loro sguardi si incrociano, intensi, senza parole. Dopo pochi istanti, lei chiude la finestra, va nella stanza dei bambini e si stende accanto a loro. Rimane sveglia a guardarli respirare piano, il viso rilassato nel sonno, come se nulla potesse toccarli.

All’hotel, Piril è seduta in salotto quando Sarp esce dalla camera con una valigia. “Dove vai?” gli chiede. Lui risponde, stanco, senza forza nella voce: “Non esiste un posto dove scappare. Voglio solo uscire da quell’inferno.” Apre la porta e aggiunge che non lascerà l’hotel, si sposterà soltanto in un’altra stanza, per stare solo e pensare. Piril segue i tacchi che risuonano sul pavimento. Una guardia apre un’altra camera e avvisa sottovoce un collega in forma di Munir. Dentro la stanza, Sarp si siede sul letto, il capochino. Piril prova a parlargli. “Nemmeno io sono felice di vivere così.” Lui alza lo sguardo e le intima di tacere. Non vuole ferirla né fare errori, ma lei insiste, piangendo. “Non posso sopportare che pensi il peggio di me. Non sarei mai capace di nuocere ai tuoi figli.” La rabbia di Sarp esplode, le ordina di uscire. Piril, con gli occhi colmi di lacrime, trova la forza di confessare che ha visto come ha salvato il numero di Bahar sul telefono. “Mia Bahar…” quelle parole restano sospese nell’aria. Lui non risponde, non si muove. Piril allora se ne va, il volto rigato di pianto, lasciandolo solo nel silenzio della stanza.


Il destino di Bahar è appeso a un filo. Cliccate su “Iscriviti” e continuate a seguire la sua forza, la forza di una donna che, di fronte al destino avverso, trova in sé stessa la capacità di rinascere, mentre altri, come Arif, iniziano a intravedere una flebile speranza in un mondo offuscato dal buio.