DOÑA LEOCADIA: LA PROMESA E L’ARTE DI MORIRE || CRÓNICAS de LaPromesa series
Nel Palazzo della Promessa, la Morte Non È Mai Solitaria: Un’Arte Visiva di Lutto e Segreti
Cari amici del dramma, appassionati di narrazioni che scuotono l’anima e amanti delle serie che sanno tessere trame in cui il passato non smette mai di respirare, benvenuti ancora una volta nelle cronache de LaPromesa. Oggi, sotto la luce inquietante che proietta l’ombra di doña Leocadia de Figueroa – la “postiza”, immobile, avvolta nel suo eterno nero, con un volto di una calma quasi innaturale – non sentiamo soltanto il gelo della paura. Sentiamo l’eco potente, quasi tangibile, di tutte le morti che questo maestoso e maledetto palazzo ha cercato invano di seppellire, ma che continuano a vivere e a sussurrare tra le sue antiche mura.
Preparatevi, perché insieme apriremo le porte del lutto, dei rituali antichi e della memoria incancellabile. In “La Promesa”, ogni sudario non è semplicemente un pezzo di stoffa, ma un volume che racconta una storia straziante. E una cosa è chiara fin dal primo capitolo: in questo mondo, la morte non è un ospite silenzioso, ma un residente permanente, un elemento imprescindibile che plasma ogni decisione, ogni segreto, ogni destino. Nulla può essere compreso senza la sua presenza incombente.
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Accomodatevi, quindi, e godetevi questo viaggio nell’arte visiva del morire, guidati dalla mia narrazione impeccabile. Io sono il vostro Gustav, sempre pronto a portarvi storie esclusive, contenuti di qualità verificata al cento per cento. Rifiutate le imitazioni, scegliete l’autentico, scegliete il vostro Gustav. E non dimenticate di lasciare un “mi piace”, quel pollice in su che ci incoraggia, e di condividere questo video con chiunque sappia apprezzare e godere di queste storie quanto voi. Prestate attenzione, perché stiamo per iniziare.
Fin dall’alba di questa serie, come vi ho già accennato, “La Promesa” ha convissuto con la morte come se fosse un membro della famiglia, un ospite silenzioso ma immancabilmente presente.
Il primo a varcare la soglia del nulla, e a farlo nel modo più crudele, è stato Tomás de Luján, il primogenito del Marchese, l’erede designato. Un giovane nobile, integerrimo, forse fin troppo curioso per il suo stesso bene. La sua morte, come ben sappiamo, non è stata un incidente del destino, ma un crimine efferato che ha segnato per sempre il destino della famiglia Luján. Quella notte, l’intero palazzo si è vestito di nero. Le serve sussurravano parole di terrore, i grandi orologi del palazzo si sono fermati, come a voler congelare l’istante fatale, e gli specchi, depositari di mille riflessi e segreti, sono stati coperti con candide lenzuola, nell’eterna superstizione che le anime in pena potessero rimanere intrappolate. Il lutto per Tomás è stato l’inizio di una spirale discendente, il primo capitolo di un libro scritto col sangue.

La tragedia, implacabile, non si è fermata. Poco tempo dopo, un altro colpo mortale ha squarciato il velo di apparente normalità. Abbiamo visto Jimena de los Infantes, la prima moglie di Manuel, cadere vittima della sua stessa follia. “Lady Bustes”, come molti di noi la ricorderanno, è stata un personaggio che ha incarnato l’ossessione, la menzogna patologica e la fragilità estrema della mente umana. Quando si è lanciata nel vuoto dalla balaustra, non è morta solo lei. Con lei è morta anche l’innocenza di Manuel. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile di colpa, un’ombra che il figlio del Marchese non è mai riuscito a dissipare.
E se pensiamo che la lista potesse già essere completa, ci sbagliamo di grosso. Dobbiamo ricordare anche Fernando, il marito di Margarita Jopis e padre di Martina. La sua morte ha riportato il lutto a tingere nuovamente i corridoi di tristezza. Margarita, vestita con un lutto impeccabile, ha giurato di non indossare mai più alcun altro colore finché il suo dolore non si fosse placato. Il suo duello, tuttavia, è sembrato lungo quanto la sua vanità, un lutto ostentato, quasi teatrale, un modo per segnare il proprio status sociale all’interno delle rigide gerarchie nobiliari. E questo, senza che la “Naranjera de Valencia” sapesse ancora la verità sulla morte del marito.
Ma la lista delle perdite nel palazzo della Promessa è ancora lunga. Chi potrebbe dimenticare Hana Expósito, la moglie di Manuel, la morte più straziante di tutta la serie? La serva divenuta futura marchesa, l’amore che ha sfidato le classi sociali, la donna che ha unito il pubblico in un unico grido di incredulità e disperazione. Il giorno in cui Hana è morta, “La Promesa” è rimasta in silenzio. Le candele accese, i volti sbiancati, i servi immobili, immersi in un’atmosfera di dolore tangibile, quasi nostro. Un lutto collettivo che ha scosso il pubblico nel profondo.

E dopo Hana, un altro lutto ci ha colpiti duramente. Parlo della povera Eugenia Izquierdo, sorella di Doña Cruz e madre di Curro. Questa donna, sfortunata per tutta la sua esistenza, ha conosciuto un attimo di gioia con il suo ritorno in scena, una vera e propria boccata d’aria fresca concessaci dai nostri sceneggiatori. L’abbiamo vista recuperata, fuori dalla casa di riposo, e soprattutto, camminando. Ma questa gioia è durata troppo poco. Presto, doña Leocadia e il famigerato “Capitano Garrapata” si sono incaricati di spezzare nuovamente il suo fragile spirito, e la povera Eugenia ha trovato la morte gettandosi dall’alto del torrione. Un altro lutto, un’altra mortaja da aggiungere a questa lunga, tragica lista.
È così che la morte è stata vissuta ne “La Promesa” fin dai suoi esordi: con veli sottili, con segreti inconfessabili e con ferite che non sembrano mai cicatrizzarsi del tutto. Ma ora, prestate attenzione, perché è giunto il momento di scoprire come la morte veniva vissuta nel 1916.
Nella Spagna di quell’epoca, la morte era un atto sociale, un evento quasi pubblico. I funerali si celebravano in casa, non in quelle che oggi chiamiamo pompe funebri. Il corpo veniva esposto per tre giorni su un letto, circondato da fiori, candele e nastri neri, simbolo del lutto. Le famiglie nobili seguivano protocolli rigidi che ancora oggi ci lasciano a bocca aperta. Il lutto poteva durare anni. Le vedove non potevano partecipare a feste né ricevere visite. Gli specchi venivano coperti per impedire che l’anima del defunto rimanesse intrappolata nel riflesso. Gli orologi venivano fermati all’ora esatta del decesso.
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Nei grandi palazzi andalusi, come quello dei Luján, il lutto era una vera e propria scenografia. I servi indossavano abiti scuri, le tende venivano sostituite da drappi pesanti e i quadri venivano coperti con tessuti scuri. C’era persino chi ordinava la propria mortaja anni prima di morire, finemente ricamata con lo stemma di famiglia, e conservata tra le preziose reliquie del casato. Nel 1916, a Córdoba, si registrò un caso curioso: il Marchese di Baldelomar fu sepolto con un orologio in tasca e una lettera che lui stesso aveva scritto per essere letta “dopo”. Un’usanza che combinava superstizione, ego e potere – ingredienti che, come sappiamo, non mancano mai ne “La Promesa”.
Ed è proprio questo che rende “La Promesa” una serie unica: non si limita a raccontare morti, ma le trasforma in un’arte visiva, in uno spettacolo potente. Ogni decesso ha avuto il suo linguaggio specifico. L’assassinio di Tomás, avvolto da ombre e sussurri di complotti. La caduta di Jimena, filmata con un’eco gotica che sembra uscita da una tragedia vittoriana. Il lutto di Fernando, carico di solennità e sfarzo. La morte di Hana Expósito, immersa in un silenzio quasi sacro, illuminata da una luce dorata, vibrante di un’emozione cruda e inconfessabile, culminata in un addio crudele. E ancora, la tragica fine di Eugenia Izquierdo. La serie è riuscita a restituirci la visione del XX secolo sulla morte: uno spettacolo, un rito di potere, un crudele promemoria che tutto può cambiare in un soffio.
Sappiamo bene che ne “La Promesa”, le mortaje non vengono riposte negli armadi, ma rimangono custodite nella coscienza. Ogni morte ha scosso le fondamenta del palazzo, ha ridisegnato le alleanze e ha portato alla luce verità a lungo sepolte. Perché lì, morire non significa scomparire, ma continuare a pesare sui vivi. E finché qualcuno indosserà il nero, finché il lutto sarà visibile, la mortaja vivrà.

Vi aspetto domani, domenica mattina, sul canale 1, per gli anticipi settimanali, per portarvi tutte le novità e le anticipazioni. Io sono il vostro Gustav, e vi saluto come sempre con un grande, stretto bacio. Alla prossima!
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