“Sogni di Libertà”: Anticipazioni Settimanali – La Minaccia di Remedios e la Volontà di Gabriel di Cancellare il Passato
Dal 10 al 14 Novembre: Gabriel mira a eliminare ogni ombra del passato che possa minacciare la sua ascesa.
Le giornate a Toledo si aprono con una chiarezza algida, quasi volesse la città stessa purificare le sue strade, le sue facciate, persino i ricordi. Ma sotto la facciata immacolata, nelle pieghe nascoste dei segreti, la luce filtra con un’altra tonalità, quella che illumina gli angoli più oscuri dell’animo umano. È in questa penombra che Begoña, con un quaderno stretto al petto come un prezioso tesoro, bussa alla porta di Gabriel. La musica è assente, l’aroma di caffè che solita addolcire le sue mattine è svanito. Al loro posto, un silenzio teso, affilato come un bisturi, che si apre quando l’infermiera varca la soglia.
Gabriel, impeccabile nella sua posa, la giacca appoggiata sullo schienale della sedia e la cravatta a mezzo, sembra quasi interrompere un pensiero oscuro prima che possa rivelarsi. “Sei tornata”, dice Begoña, e nella sua voce si mescolano gratitudine e una sottile sfumatura di rimprovero. “Sono tornato”, conferma lui, con quel sorriso calcolato che lei ha sempre temuto. Non c’è abbraccio, solo l’ombra incombente del nome di Julia e le notizie confuse da Parigi, avvolte in carte dall’intestazione francese e un’agenda che nasconde più di quanto riveli.

È Begoña a rompere il ghiaccio, dopo aver provato e riprovato quelle parole davanti allo specchio appannato del bagno: “Voglio chiederti una cosa. Voglio che formalizziamo la nostra richiesta che Julia diventi nostra figlia. Non a parole, non in progetti che si sciolgono con un brindisi. Voglio che cresca con il nostro cognome, legalmente, e che nessuno possa mai portarcela via.”
Lo sguardo di Gabriel, sorpreso per un istante fugace, non si aspettava questa concretezza, questa urgenza di sigillare la felicità come un bene immobile. Sul comò, una foto di Begoña con Julia, la bambina appoggiata sulla sua pancia arrotondata e incerta, le mani dell’infermiera aperte, protettive. “Non è il momento migliore”, ammorbidisce la voce. “Fari non è stato gentile. Ci sono movimenti nell’azienda. Damián è… è fragile. Se spingiamo troppo, qualcosa si spezzerà.” Begoña replica, con una fermezza che sorprende: “Ciò che si spezza quando non si agisce in tempo, non è qualcosa, ma uno o due bambini.” Il pensiero di Gabriel corre al nascituro, alla casa che già parla al futuro. La sua strategia, quel domino di decisioni già preparate, è minacciata da questa richiesta improvvisa e pura. “Dammi un giorno”, concede infine. “Lasciami riordinare l’agenda. Parlare con Damián. Capire cosa hanno deciso a Parigi. Domani avrai la mia parola, o la mia firma.” Begoña annuisce, conoscendo i tempi della speranza.
Nel frattempo, Pelayo esce dal carcere con l’odore metallico dei telefoni pubblici. Era entrato con la sicurezza di chi porta denaro e contatti, ed esce con l’inquietudine di chi, pur avendo giocato le sue carte, si è imbattuto in un territorio a lui sconosciuto. Ha accettato le condizioni, chiuderà la bocca. Ma nei suoi occhi, una scintilla affilata, il ricordo di un potenziale coltello. “Non sarà più un problema,” dice a Marta, con troppa fretta. “Ho tagliato la testa al toro. Ho comprato la pace.” Marta lo osserva con la serenità di chi sa che la pace è una fragranza complessa. Pelayo ha comprato solo un’illusione effimera.

E poi squilla il telefono. Chloe, la francese, raramente chiama. I suoi messaggi sono telegrammi moderni, concisi. Ma questa volta, l’urgenza richiede la sua voce. “Lamento essere io a darti la notizia, Marta,” dice, “ma è meglio che tu lo sappia prima di arrivare in negozio. Da oggi, ‘Profumerie della Regina’ diventerà ‘Profumerie Brosart de la Reina’. Un piccolo dettaglio, un’alleanza di prestigio.” Marta resta gelata. Comprende, prima ancora della rabbia, la precisione del colpo: non una sostituzione sfacciata, ma una lenta trepanazione, un cognome innestato come se fosse sempre appartenuto al luogo. “Damián lo sa?” chiede, la voce strozzata dalla furia. “Ora stesso sta vedendo le nuove insegne,” risponde Chloe, dolce come il filo di un rasoio. “Accompagnalo, avrà bisogno di te.”
Nella fabbrica, Joaquín è in crisi da giorni. Il nuovo direttore, eppure non lo è. Firma licenziamenti che non sente suoi, obbedisce a ordini altrui. Quando Tasio, esausto, gli incrocia la strada, l’esplosione è inevitabile. “Non dirmi che obbedisci agli ordini!” ringhia Joaquín. “Non parlarmi come se il dolore avesse una procedura amministrativa.” Tasio, che ha perso troppi amici in altre battaglie, stringe la mascella. “Sto salvando i posti che posso,” ribatte. “E sto salvando te da un tradimento maggiore. Se non lo faccio io, lo farà Brosart.” Joaquín lo odia, perché ha ragione. Si sente così lontano da se stesso da aggrapparsi all’ultimo brandello del suo orgoglio. “Sai cosa?” alza la voce. “Mi dimetto da direttore. Torno ad essere quello che ero, un caposquadra. Quello che so fare senza morire dentro.”
Le parole corrono veloci, raggiungendo Gema prima ancora di Joaquín. Lo affronta con la vera paura negli occhi: “Ti sei impazzito? Come pagheremo l’affitto? Come lo spieghiamo a Teo?” “Preferisco guardarli negli occhi con la verità addosso,” risponde lui. “E preferisco guardarmi così, piuttosto che allo specchio come faccio ora.” La discussione è aspra in superficie, ma sotto scorre un sollievo profondo per non dover più fingere.

Nel negozio, la nuova era inizia con un catalogo di sorrisi affilati. Chloe ha instaurato un sistema di commissioni che trasforma ogni bancone in una piccola trincea. “La migliore venditrice del mese avrà un bonus e la sua foto qui,” annuncia, indicando una parete bianca. Claudia mormora a Manuela: “Non venderemo profumo, venderemo pace.” Manuela annuisce, ma lotta con un’altra battaglia interiore. Damián, da quando è apparso in dispensario quel giorno di pioggia, è un pensiero costante. Non riesce più a definire ciò che prova. È qualcosa di più della passione ingenua, della rassegnazione elegante. È il sospetto che il tempo capriccioso a volte restituisca ciò che si è portato via senza preavviso. Lo confessa a Digna, ma la zia, severa, risponde: “Ti ascolto, ma non posso consolarti con ciò che io stessa non capisco.”
Begoña, con l’umiltà che si riserva a chi ha sempre saputo tendere la mano, espone la sua idea a Digna: Julia come figlia. La risposta è un sonoro “no”. “Non puoi portarcela via come un mobile. È la sua famiglia, siamo noi. Non ci cancellerai dai registri.” Begoña incassa il colpo, esce per strada, chiede un bicchiere d’acqua. Lì, Maripaz si siede accanto a lei. Stanca, con le mani pulite e un’antica fame. “Non ho bisogno di elemosina,” dice, prima che Begoña possa offrire qualcosa. “Ho bisogno di un’opportunità. Alla casa Kuna posso portare mani e silenzio. Capisco i bambini. Non li giudico.” Claudia, che ha origliato, la guarda come uno specchio migliorato. Nonostante la mancanza di referenze, decide che a volte la fiducia è il documento più importante. “Vieni domani,” dice. “Se fai due turni di fila senza lamentele, il posto sarà tuo.” La gratitudine negli occhi di Maripaz è una luce che il negozio non potrà mai vendere.
Martedì, Damián arriva presto alla nave centrale. La nuova insegna brilla come una sfida, un cognome straniero pronunciato con una raffinatezza che lui non possiede. “Profumerie Brosart de la Reina.” Il suo nome non scompare, ma ora ha bisogno di un altro per sostenersi. Ripensa a Gervasio, a risate, a strette di mano sincere. “Non posso sopportarlo,” confessa a Marta, quando lei si avvicina. “Vedere un’altra famiglia insinuarsi nel mio cognome.” “Una famiglia non è un cognome,” replica lei, senza solennità. “È un modo di lavarsi le mani tornando a casa. È sapere per chi prepari la cena.” Damián sorride inaspettatamente. “Accetterò da Begoña,” dice. “Julia deve avere un posto che non sia provvisorio. E se Gabriel non mi piacerà, imparerò a sopportarlo.” Quando lo comunica a Begoña, l’infermiera sente il mondo allinearsi. Si abbracciano, come se l’intemperie fosse finita. Julia li osserva con una gioia immensa, e per un istante, il futuro non pesa.

Ma Andrés è un nodo irrisolto. Mastica ricordi che si rifiutano di essere ingoiati: la sala caldaie, l’odore di ruggine, l’esplosione. La figura di Gabriel avvolta nel fumo, la corsa verso la valvola. E un dubbio, un dettaglio sfuggente: un orologio avanti, una chiave in una tasca sbagliata, uno sguardo fuori posto. Parla con Luis in laboratorio: “Mi confonde che abbia rischiato la vita. Se Gabriel ha giocato su due fronti, perché si è bruciato le mani?” Luis risponde con fredda protezione: “C’è chi si brucia per non far notare il fumo. E c’è chi crede che l’essenza di una casa possa essere imbottigliata in un’altra bottiglia. Non smettere di guardare.”
Quella sera, María, ignara o no, rafforza il sospetto. Una lettera. Enriqueta, odore di inchiostro vecchio e conti in sospeso. Una lettera che María decide di non mostrare ad Andrés, temendo più il tremore che la verità. E quando lui la scopre inevitabilmente, il suo mondo si spezza. “Perché me lo hai nascosto?” chiede, con una calma che sa di accusa. “Perché non so più da che parte della corda sei,” risponde lei. “E da che parte voglio stare io.”
Mercoledì arriva con la brutalità cerimoniosa delle riunioni degli azionisti. La francese ha ricevuto istruzioni dal signor Brosart e ha imparato a pronunciare la resistenza come fosse un complimento. Riunisce gli azionisti e, con un sorriso coreografato, svela il nome del nuovo direttore: Gabriel. Nessuno applaude, l’aria si sospende. Lo sguardo di Gabriel percorre Marta, Damián, Andrés, Chloe. E poi, con cura millimetrica, accetta l’incarico, ponendo condizioni che sembrano virtù: preservare il laboratorio di Toledo, rispettare la memoria di Gervasio, mantenere il legame con la colonia. Nessuno sa se siano dighe o ponti.

Quello stesso pomeriggio, Damián chiama Digna per comunicarle il suo cambio di rotta su Julia. La zia ascolta senza annuire. Julia entra, e quando Begoña le spiega che potrà finalmente essere sua figlia di carta, la bambina piange un pianto limpido e corre ad abbracciare Gabriel, un gesto che lo trafigge come un rimprovero e un’assoluzione. Nel suo abbraccio, Julia non sa di stringere i bulloni di un piano segreto che ora deve essere ricalibrato.
Carmen e David si incrociano di nuovo nel corridoio della fabbrica, con quel tenero sospetto che solo chi si è amato senza storia ufficiale può provare. Gaspar, geloso e impaurito, percepisce la tensione e decide di agire. Invita David a prendere un caffè, parla di calcio, di fatture, e infine, con un mezzo sorriso, delimita il suo territorio: “Mi stai simpatico. E proprio per questo, vorrei che non ti facessi più rivedere a casa mia.” David capisce. Carmen, intuendo il dialogo, ringrazia in silenzio il pudore con cui i due uomini scelgono di essere adulti.
Giovedì, Chloe si avvicina al telefono come chi si specchia senza trucco e chiama Parigi. Vuole annullare la nomina di Gabriel, persino guadagnare potere in cambio di obbedienza assoluta. La risposta è una pietra levigata: “No.” Attiva il suo piano B: avvolgere Marta nella seta. Si incontra con lei nel retrobottega e le confessa, come rivelando un amore antico, che Marta era la sua prima scelta per quel posto, che con lei l’azienda avrebbe avuto una sensibilità locale. Marta ascolta, divisa tra lusinga e consapevolezza della manovra. “Non cospirerò contro la mia famiglia,” dice. “Ma medierò affinché non diventiamo un appendice. Se è questo che cerchi, chiamalo pace.” Chloe sorride: “La pace è il profumo più caro e quello che si conserva peggio.”

Alla stessa ora, Manuela non può più nascondere ciò che prova per Damián. Non glielo dice ancora, ma nel dispensario inizia una pulizia meticolosa, scusa e metafora. Si sorprende a canticchiare una canzone dimenticata. Begoña la vede e capisce. Le pone una mano sul braccio, il gesto esatto che separa la compassione dal giudizio. “Non sei sola,” dice. Joaquín, intanto, riceve una proposta inaspettata: una piccola azienda di saponi artigianali cerca qualcuno con mestiere e dignità. Non c’è glamour, solo finestre aperte e un tavolo di legno sotto una vite. Immagina Teo correre lì e, per la prima volta in mesi, la sua anima si distende. Quella sera, lo racconta a Gema. Discutono apertamente, poi, esausti, ridono con quella risata antica che si trova solo dopo aver combattuto davvero.
Più tardi, una chiamata inquietante giunge ad Andrés. Una voce anonima, o che si finge tale, gli dice che prima dell’esplosione ci fu una chiave usata in modo improprio. “Cercate nel registro di manutenzione. Non fidatevi delle fotografie,” dice la voce. “Cercate chi le ha fatte.” L’aria si addensa di nuovo. Gabriel, intanto, incontra Chloe in un caffè affollato. Non flirtano, non ne hanno bisogno. Si capiscono. Il futuro dell’azienda ha già due firme invisibili.
Venerdì, la valanga Brosart arriva in scatoloni che rumoreggiano a catena. Le commesse accolgono la novità con la triste emozione di chi riconosce che la moda straniera ha un odore strano in casa propria. Claudia cerca di mettere ordine nel caos. Luis discute con una bottiglia come se contenesse la sua biografia. Marta calcola cosa salvare, e Gabriel, dal suo ufficio, impara a camminare su una corda tesa. Prima di mezzogiorno, chiama Andrés: “Accetterò il posto, con condizioni. Ci saranno licenziamenti. Non li ho inventati io, ma non posso evitarli e ho bisogno che, mentre durano, confidiate che non sono qui per distruggere ciò che amate.” “La fiducia non si chiede come un anticipo,” replica Andrés, con un disagio che sa di tristezza. “Si guadagna come uno stipendio.” Gabriel riaggancia lentamente. Nella tasca, la chiave che non doveva esistere pesa come un macigno.

A metà pomeriggio, María lo affronta nel corridoio e parla della lettera di Enriqueta. Lo fa senza giri di parole, con quel coraggio che solo la stanchezza offre. Gabriel ascolta la menzione, e un vecchio allarme si accende dietro i suoi occhi. Enriqueta. Remedios, la catena segreta di donne che sapevano troppo. Sente per la prima volta in giorni la minaccia respirare sul collo. Decide: “Devo uscire un momento,” annuncia con la cortesia di chi chiede permesso per spegnere un incendio che lui stesso ha acceso. Prima di andare, passa in laboratorio. Luis dice: “Lotterò per il laboratorio di Toledo. È la nostra anima, anche se suona come uno slogan.” “Non dire nostra, se non è tua,” replica il profumiere senza alzare la voce. “Ciò che sa di verità non ha bisogno della parola ‘nostra’.” Gabriel non insiste. Impara in fretta a non combattere battaglie perse. All’ingresso, incrocia Gaspar. Un cenno del capo, un riconoscimento di forze. E poi, finalmente, guida verso il carcere. Il tragitto è un tunnel nel tempo. Ogni semaforo gli restituisce una scena: la sala caldaie, Parigi, il sorriso di Chloe, la risata di Julia, il gesto di Begoña, e soprattutto il nome di Remedios, che cresce come un cardo inarrestabile. Remedios sa. Remedios custodisce un filo che può sfilacciare il tappeto. Non si tratta di ucciderla. Non ancora. Ma di cancellarla, di farla trasferire, di comprare il suo silenzio. Farla scomparire dai racconti.
Nella garitta, il funzionario alza lo sguardo. “Chi viene a vedere?” “Remedios,” dice Gabriel, e la parola gli resta incollata ai denti, dolce e amara. Lo fanno entrare. La sala è la stessa. Sedie di plastica, un tavolo sbiadito, una luce bianca che rivela più di quanto dovrebbe. Remedios arriva, guidata da un’ufficiale. Ha i capelli raccolti, gli occhi spalancati. “Guarda un po’,” dice l’avvocato che corre per salvare gli altri. “Per salvare me stesso.” Gabriel sorride senza denti. “Vengo a chiuderti la bocca,” dice con dolcezza. “Con cosa?” “Con il profumo.” Remedios si avvicina e aspira. “Mi piace quello che indossi. Sa di denaro che non è passato per casa. A me i profumi non comprano più, avvocato. Mi comprano le certezze.” “Le certezze sono economiche finché qualcuno non ci crede,” replica lui. “Facciamo le cose semplici. Avrai un trasferimento in un posto dove i nomi non significano nulla e un fascicolo in cui tu non significhi nulla. O possiamo far sì che tu significhi troppo.” Remedios non batte ciglio. “E se parlo prima di essere trasferita? E se racconto a un signore con gli occhiali quello che ho visto? La chiave, l’ora, l’uomo arrivato cinque minuti prima per dire che era in ritardo.” Gabriel non si muove. “Nessuno ti crederà.” “Non sbagliarti, ragazzo. A me credono le donne.” Remedios sorride, e nel suo sorriso ci sono denti rotti e dignità. “E in questa città le donne stanno imparando a non tacere. Il tuo tempo si sta consumando come le ciocche che fa Tasio.”
Allora, Gabriel propone: “Dovremo fare qualcos’altro.” Non specifica. Non c’è bisogno. Nelle storie di uomini come lui, “qualcos’altro” significa un ponte verso il vuoto con ringhiere di seta. Remedios lo capisce. Capisce che per un istante, un secondo che nessuno annoterà, lui sembra avere paura.

Nella colonia, la vita fa i suoi conti. Begoña prepara una zuppa per Julia. Digna lancia la sua protesta finale: “Non mi fido di Gabriel. Non mi piace il suo modo di arrivare sempre con la soluzione in mano e il problema in tasca.” Begoña la lascia parlare, silenziosa come chi conserva pane per la merenda, sapendo che lì risiede la forza. “Non ti chiedo di fidarti di lui,” dice infine. “Ti chiedo di fidarti di me.” Digna allenta le spalle. Non promette nulla. A volte la vita si vince con i pareggi.
Luis, in laboratorio, decide che se Gabriel crede di poter salvare l’essenza di Toledo, dovrà dimostrarlo con atti, non con parole. Gli insegna una formula a metà, lo sfida ad annusare senza etichette, lo lascia solo con un flacone. “Annusa,” gli dice. “E dimmi cosa vedi.” Gabriel chiude gli occhi. Vede un cortile con vasi, l’ombra di una donna che annaffia. Vede una pelle, vede, senza confessarlo mai, la nuca di Begoña. Apre gli occhi: “Vedo casa.” Luis annuisce. A volte la verità appare limpida nel linguaggio degli odori, specialmente quando il bugiardo abbassa la guardia.
Marta porta a Damián un rapporto con numeri spaventosi e soluzioni insufficienti. Si siedono nello studio che ha visto passare decenni e parlano come soci e come famiglia. Damián non piange, ma il modo in cui stringe la penna è il suo pianto privato. Gema torna dal negozio, stanca. Claudia la richiama, le offre un bicchiere d’acqua, ascolta la sua paura e le ricorda che la trincea in cui si trovano non può inghiottirle. Gema ringrazia con poche parole e uno sguardo lungo. Teo mostra un disegno: suo padre che aggiusta macchine giganti con una chiave inglese grande come la luna. Le due donne ridono. L’infanzia ha ancora credito.

Maripaz fa il suo secondo turno alla casa Kuna. Non piange perché non c’è tempo. Cambia pannolini con efficienza e tenerezza. E quando un bambino le stringe il dito con forza, sente che per la prima volta in anni qualcuno l’ha scelta. Quella notte, prima di dormire, ripete il suo nome a bassa voce, per ricordarsi che ce l’ha.
Andrés, la domanda a gambe, sale all’archivio di manutenzione. Chiede i registri del mese dell’esplosione. Li ripassa con quella minuziosità che prima riservava ai cataloghi delle fiere. Trova orari che non quadrano, firme che sembrano la stessa con un’altra mano. Trova soprattutto una fotografia in cui l’ombra di una persona punta verso una valvola. “Non fidatevi delle fotografie. Cercate chi le ha fatte,” gli aveva detto la voce. Sul retro, a matita, un’iniziale che gli gela lo stomaco. Non è una G. È una R. Remedios. Sente allora, con una chiarezza che non ammette scuse, che la prossima mossa di Gabriel non sarà economica o corporativa, sarà umana. E se non arriva in tempo, l’umano diventerà cadavere. Esce nel cortile, respira aria. Il telefono vibra. Un messaggio da María: “Dobbiamo parlare, non solo della lettera.” Andrés sente per la prima volta in settimane che non è l’unico a cercare a tentoni una porta che forse non si aprirà.
In carcere, Gabriel parla di nuovo. “Non sono qui per giocare,” dice. “Sono qui per chiudere un capitolo. Se collabori, ti trasferirò in un posto dove avrai un nome nuovo e una routine nuova. Altrimenti, il capitolo ti chiuderà.” “I capitoli non si chiudono così,” replica Remedios, appoggiando i gomiti sul tavolo. “Si chiudono quando qualcuno decide di raccontare quello che ha vissuto.” “E io ho deciso di raccontarlo.” “A chi? Alla bambina che eri un tempo?” lo schernisce lei. “Non ti rendi conto? Non vengo dal tuo mondo. E proprio per questo posso raccontare senza perdere nulla.” C’è un’etica di guerra in questo scambio, che entrambi capiscono. Gabriel, stanco della precisione, lascia sfuggire una frase non pianificata: “Ci sono modi per scomparire che non lasciano traccia.” Remedios si ritrae, come riconoscendo l’animale esatto che ha davanti. Per la prima volta, i suoi occhi si oscurano. “Allora sei uno di quelli che fanno cadere gli altri dalle scale,” mormora. “Di quelli che lasciano le porte socchiuse, di quelli che chiamano a mezzanotte perché nessuno senta il soccorso.”

L’ufficiale annuncia la fine della visita con uno schiocco di mani secco. Remedios si alza. Gabriel anche. Per un secondo sono abbastanza vicini da annusarsi la storia. Lei parla a voce bassissima: “Se mi uccidi, parleranno le mie lettere.” Lui non si sorprende. “Allora cercherò le tue lettere, e le brucerò.” “La carta sempre odora di qualcosa quando brucia,” dice Remedios. “Te ne accorgerai tu dall’odore.” Se ne va senza voltarsi. Gabriel, per la prima volta in molto tempo, sente che il piano, quella geometria in cui confidava più delle persone, si sta trasformando in acqua. E tutto il suo successo dipende dall’imparare a nuotare senza fare rumore. Esce nel cortile grigio. Il cielo è in basso, come quando la città odora di tempesta.
A quell’ora, nella colonia, Julia corre con una lettera in mano, un disegno, con cuori storti e una casa grande da mostrare a Begoña. Digna osserva la scena dalla soglia e, senza volerlo, sorride. Marta, a qualche isolato di distanza, conta il cambiamento di una giornata fin troppo lunga. Luis chiude il flacone della formula che sa di casa e si concede il lusso di aspettare. Joaquín, Gema e Teo cenano un piatto umile con la solennità dei cibi che sanno di decisione. Carmen e Gaspar condividono un silenzio comodo. Claudia scrive il nome di Maripaz su un foglio con gli orari della casa Kuna. Manuela, nel dispensario, spegne la luce con un tremore nelle dita che non è di stanchezza.
E Andrés, camminando a passo svelto per la strada, capisce finalmente che per salvare ciò che ama non basta nominare il sospetto. Bisogna arrivare prima che qualcuno cancelli la prova. Il venerdì si chiude con il rumore di una porta di metallo. Dentro, Remedios respira a fondo. Fuori, Gabriel mette la mano in tasca e la stringe attorno a una chiave che non è presente in nessun inventario. Non c’è musica, non ci sono frasi finali, solo un odore. Miscela di carta vecchia, sudore trattenuto e pioggia in avvicinamento. Un odore che, in questa città, significa sempre la stessa cosa: la verità. A volte arriva tardi, ma arriva. E chi tenta di cancellarla, finisce, prima o poi, per odorare di ciò che è. M.