🔴 ‘Valle Salvaje’ capitolo 290: Adriana affronta la verità su Luisa imprigionata

Il capitolo 290 di ‘Valle Salvaje’ si preannuncia come un turbine di rivelazioni scioccanti e alleanze inaspettate. Mentre Adriana si addentra nell’oscurità della prigione per confrontare la sua amica Luisa, le fondamenta stesse del potere e della lealtà nel Valle iniziano a sgretolarsi. La verità, come una marea inarrestabile, sta per sommergere tutti.

La quiete mattutina del Valle è stata brutalmente interrotta. Non c’è il cinguettio melodioso degli uccelli, né il fruscio rassicurante della legna, né le voci vivaci dei contadini. Un silenzio pesante, quasi palpabile, grava sull’aria, come se il Valle stesso avesse trattenuto il respiro, soffocato dal nome di Luisa. Adriana si risveglia con una fitta lancinante alla nuca, un doloroso promemoria del peso segreto che porta nel grembo. Il suo bambino, ancora un sussurro di vita, dorme sereno, ignaro della tempesta che si agita intorno a loro. “Non piangere,” sussurra silenziosamente, infondendo forza a se stessa e al nascituro. “Se io mi sostengo, tu ti sostieni con me.” Fuori, un vento gentile accarezza i roseti, ma dentro la piccola casa, la notizia della “santa fratellanza” si è diffusa come un gelo, promettendo non sollievo, ma solo un altro muro di silenzio sigillato a ceralacca. Nessuna speranza di liberazione per Luisa, solo fumo acre di disillusione.

Isabel, con la sua solita premura, cerca di confortare Adriana, offrendole una tazza di latte caldo. Ma Adriana, con la gratitudine offuscata da un’inquietudine crescente, nota un tremore nello sguardo dell’amica. Da quando ha scoperto il legame di sangue tra Eva e Amadeo, Isabel sembra avvolta in una nube di malinconia, come se volesse abbracciare tutto e tutti prima di doversi inevitabilmente separare. “Non mi entra,” mormora Adriana, incapace di mangiare quando la sua amica è privata persino della luce. Isabel non risponde, ma le sue labbra si muovono silenziosamente, un balsamo di speranza racchiuso in un messaggio non detto: “Se ti dico di mangiare, è perché ti voglio viva per quando dovremo lottare.”


La porta si apre senza preavviso. È Rafael, trascinando con sé l’odore di cavallo e un’urgenza palpabile. Le sue parole squarciano l’atmosfera tesa: “Ho parlato con mio padre, con il sindaco e con un uomo della fratellanza.” L’obiettivo è chiaro: Adriana vedrà Luisa oggi. Adriana alza lo sguardo, un misto di incredulità e speranza. “Oggi? Rafael, è quasi impossibile.” Ma Rafael insiste, con la sicurezza di chi è cresciuto imparando a comandare, una sicurezza venata da un’ombra di colpa. Il nome del Duca, pronunciato così vicino a un favore, risuona come una pietra nel brodo. “Cosa hai chiesto in cambio?” incalza Isabel, la sua voce morbida come chi sonda una ferita. Rafael si ritrae appena: “Nulla che non pagherò volentieri… accompagnare mio padre a un pranzo con la fratellanza la prossima settimana. Lui vuole che ci sia.” Isabel abbassa lo sguardo, riconoscendo il prezzo vero: la lealtà. Ma un frammento del suo cuore, quello che ha vegliato Adriana fin da bambina, quella che ha visto Luisa ridere mentre piegava lenzuola, prevale su ogni dubbio. “Va’,” concede. “Va’ a vederla. E se puoi, abbracciala anche per me.”

Il viaggio verso la prigione è costellato di alberi nodosi che sembrano sussurrare le paure di Adriana. Rivive i ricordi di Luisa, delle sue promesse, di Alejo che giurava di smuovere il cielo. “E se il cielo è dalla parte del Duca, non lasciarti travolgere dalla rabbia,” la avverte Rafael, intuendo la tempesta che ribolle dentro di lei. “Pensa prima di parlare, osserva prima di giudicare. Se esci di lì con la certezza che Luisa viene spezzata dentro, mi preserò io stesso nell’ufficio di mio padre.” Adriana replica con amarezza: “Le chiederai con grazia di smettere di romperla? È questo che fanno i figli nati dopo le firme? Supplicare?” Il silenzio cala nel carrozzone, un silenzio carico di case che crollano sotto la pioggia. Rafael stringe le labbra, diviso tra il desiderio di replicare e la dolorosa onestà che lo rende simile a sua madre. “Non discuterò con te,” dichiara. “Ti porterò da lei. Il resto lo decideremo quando sapremo la verità.”

L’ingresso nella prigione è un assalto ai sensi: odore di calce umida e ferro arrugginito. Il guardiano, con sopracciglia minacciose e uno sguardo tagliente, li fa passare solo dopo aver studiato la firma del Duca come se potesse leggerla sulla pelle. Il suo sorriso è un mero movimento delle labbra. “Ecco come funziona,” pensa Adriana. “Ecco come la misericordia entra in questi muri con sigilli che sono chiavi che sono museruole.” Ma il suo volto rimane impassibile alla vista di Luisa, non per mancanza di riconoscimento, ma perché quel riconoscimento è un pugno nello stomaco. Luisa è seduta sul bordo di un giaciglio, la schiena curva, gli zigomi sporgenti come promesse infrante. Le labbra spaccate, un ciuffo di capelli appiccicato alla fronte. Quando alza lo sguardo su Adriana, l’unica parola che le sfugge è un sospiro: “Ay.” Adriana sente il bambino muoversi nel suo grembo, un’onda lieve che fa sprofondare il terreno sotto i suoi piedi. Si avvicina, un fiume in piena, e le bacia la fronte con una tenerezza antica. “Sono qui,” dice. “Sono qui Luisa, non ti molliamo.” Luisa accenna un sorriso con le labbra, ma non con gli occhi. La sua espressione si frantuma subito. “Non mollate la corda,” sussurra. “Qui è profondo e oscuro.”


Rafael si tiene a distanza, temendo di rompere con la sua sola presenza la fragilità di quel momento. È allora che Adriana, che aveva evitato di guardare più a fondo, decide di farlo davvero. Le mani di Luisa, arrossate, bendate, lividi sul collo che sembrano un collarino d’ombra. La voce che si spezza in punti in cui prima echeggiava una risata. Un sospetto le morde il pensiero. Si volta verso il guardiano, che finge indifferenza. “Chi l’ha interrogata?” chiede. “La giustizia,” risponde lui con una beffarda ironia. “La santa fratellanza.” “La giustizia non lascia segni dove un uomo lascia le sue dita,” ribatte Adriana. Rafael, senza volerlo, fa un passo avanti. “Dica il nome.” Il guardiano la guarda con pietà fingita. “Signora, qui i nomi sono muri. Se li abbattiamo, ci cade il tetto.” Rafael interviene con una voce gelida, estranea. “Il mio nome è Rafael de la Torre. Se qui dentro sono stati violati i protocolli, se si è ecceduto nello zelo, se questa donna è stata punita con qualcosa di più di domande, mi assicurerò che la punizione cambi direzione.” Il guardiano sta per ribattere, ma Luisa alza una mano esile, come per invocare il silenzio dei campi. “Non litigate per ciò che non ha rimedio,” dice. “Non sprecare le tue forze, Adriana. Ci sono ancora notti.” “Sì,” replica Adriana. “Ma non voglio che nessuna abbia i tuoi occhi. Chi ti ha fatto questo?” Luisa chiude le palpebre per un lungo istante. Quando le riapre, il suo sguardo è cambiato. Non è più la donna picchiata che implora riposo, ma quella che torna dal pozzo con un oggetto in mano.

“Mi hanno parlato del Duca,” dichiara senza giri di parole. “Uno di quegli uomini mi ha detto che tutto si sarebbe risolto se avessi ricordato con chiarezza. Che se avessi ricordato da dove venivano i soldi con cui abbiamo pagato le medicine di mia madre, qualcuno avrebbe potuto scoprire che c’è stato un malinteso. Mi ha parlato con voce dolce, mi ha chiesto di Alejo e di te. Poi, si è stancato della mia memoria.” Non ha dato il suo nome, ma la sua testa tremava quando ha pronunciato Duca, non come chi lascia cadere un titolo dalla bocca, ma come chi sa di pronunciare un santo. Adriana sente la rabbia invaderle il sangue. Rafael, pallido, riceve quel nome come una pietra nello stomaco. Il dubbio, quella figura magra che lo segue dall’adolescenza, alza di nuovo la testa. “Non può essere,” dice più a se stesso che alle altre. “Mio padre, no, non così.” Luisa lo guarda con un affetto sincero. Rafael è nobile, sì, ma è anche un ragazzo che ha imparato ad amare ciò che il potere non poteva comprare. “Può essere,” dice lei, “o forse nemmeno lui lo sa. Non lo so, Rafael. Ma qui, quando si pronuncia il suo nome, gli uomini si muovono come cani quando si fischia.”

Il guardiano schiarisce la gola, a disagio in mezzo a tanta verità. Due colpi secchi alla porta e una voce esterna, implacabile, annuncia la fine della visita. Adriana non si muove subito. Rimane a memorizzare la sua amica come se volesse portarla via in un sacchetto d’aria per respirarne il profumo più tardi. “Tornerò,” dice. “Tornerò con qualcosa di più delle mie mani.” “Tornate con una luce,” chiede Luisa. “Qui dentro il giorno non si capisce.”


Tornati alla piccola casa, la notizia si diffonde senza rumore. Alejo era passato prima, lasciando sul tavolo una promessa dall’odore di carta nuova: “Domani, a prima ora, chiederò udienza al Duca. Non accetterò un no.” La scia del suo profumo aleggia ancora vicino alla porta. Adriana si siede esausta, una mano sul ventre, l’altra sul proprio polso. “E se accelerassimo tutto?” propone. “E se chiedessimo al notaio, a cui mio zio deve le estati, di dirci con sigillo e inchiostro, chi ha autorizzato gli interrogatori? Se compare il nome del Duca, non resterà un sussurro. Se non compare, sapremo dove puntano i suoi cani.” Rafael non dice cani, dice uomini, ma l’idea è la stessa. Il suo volto è una maschera di decisioni. “Io parlerò con lui,” dichiara. “Non con giri di parole, non con lamenti, non con suppliche. Se la sua mano è in tutto questo, voglio vederla. E se non lo è, voglio vederlo ripulire il fango che i suoi hanno portato alla sua porta.”

Isabel, che ha ascoltato senza interrompere, appoggia le mani sulla solida mensola. “C’è altro fango in questa casa,” dice con una voce che viene da lontano. “E non tutti lo hanno calpestato per sbaglio.” Adriana la guarda con quell’intricato misto di amore e allarme che si riserva solo alle madri che condividono peccati che nessuna figlia vorrebbe portare. “Non chiamarmi con tenerezza, bambina,” la interrompe Isabel. “Te lo chiedo da donna, non da tua vecchia. Mi duole la verità che dirò, ma mi dolerebbe di più tacere. Ho vissuto coprendo segreti. Ho cucito orli con carte dentro. Ho dato istruzioni a Eva. L’ho protetta da cose che non doveva sapere e ho mandato Amadeo a fare commissioni che non volevo firmare. E ora che so che sono fratelli, devo fingere di non aver giocato a nascondino con la vita di due creature.” Rafael spalanca la bocca sorpreso. “Cosa? Cosa stai dicendo?” “Che anch’io ho fatto parte,” ammette Isabel, gli occhi puliti come quelli di chi vive in una casa dove le porte si aprono con chiavi altrui. “Che se il Duca ha potuto muoversi come si muove, è perché intorno a lui molti abbiamo creduto che un po’ di silenzio non fosse peccato se il letto era fatto e la zuppa non si raffreddava.” “Ho preso una decisione,” aggiunge, e la parola le si posa sulla lingua con un sapore di metallo. “Parlerò con nomi e date. Racconterò la mia parte e quello che mi hanno detto e se mi cercano la colpa, che la trovino.” Adriana si alza di scatto, facendo gemere la sedia. “Non sacrificare la tua vita per salvare la nostra,” chiede. “Tu non sei colpevole di nessuno. Tu… tu ci hai tenuto in piedi mentre il mondo si inclinava.” “Mi sono tenuta in piedi con voi,” corregge Isabel. “E ora mi tocca farlo da sola.”

La porta si apre e Eva appare, pallida, con una busta in mano. Gli occhi gonfi da una veglia non richiesta. “Mi dispiace,” dice, senza sapere se si sta scusando per essere entrata senza bussare o per esistere. “È arrivato questo per lei, signora Isabel? È dell’avvocato dei González.” Isabel prende la busta con una serenità presa in prestito. La apre senza cerimonia, legge in silenzio. Al termine, piega il foglio e lo ripone nel grembiule come una reliquia. “È una citazione,” spiega. “Vogliono che deponga su certi acquisti fatti nella casa grande 3 anni fa? Medicine, conti di laboratorio a Burgos e il nome di una donna, Beatriz.” Quest’ultima parola si conficca nell’aria come un coltello. Beatriz. Un’eco, un’ombra dietro la quale il Duca era a volte passato con i suoi stivali puliti e il suo sguardo invernale. Rafael sgrana gli occhi. “Beatriz,” ripete, come se pronunciarla la rendesse meno pericolosa. “Cosa c’entra lei con tutto questo?” chiede Isabel stanca. E con tutti nella casa grande, il profumo della lavanda non riusciva a coprire l’odore di intrigo.


Damaso cammina per i corridoi riconquistati con la cadenza soddisfatta di chi misura di nuovo il suo regno. Le cameriere distolgono lo sguardo per non accendere la sua superbia. Victoria lo segue con una distanza calcolata, né troppo vicina da sentirne il fiato sulla nuca, né così lontana da sembrare una fuga. Il suo stesso volto, quando lo vede nello specchio del corridoio, le restituisce un gesto nuovo, affilato. “Anche tu sei capace di mordere,” si dice. Mercedes arriva allora con un sorriso da salotto e le dita coperte di anelli che tintinnano come campane di messa maggiore. Osserva tutto con l’acutezza di chi calcola sempre per due, per sé e per il nemico. “Che piacere vederti così a tuo agio, Mercedes,” esordisce Damaso, cordiale come un serpente al sole. “Sembra che il palazzo ti abbracci meglio quando ci sono io.” “Il palazzo ha braccia lunghe,” replica lei. “E memoria selettiva.” Si incrociano gli sguardi. Victoria respira profondamente. Vuole parlare con Mercedes, non perché la ami, ma perché sa che a volte la sopravvivenza ha bisogno di pelli che si sfiorano con affetto, ma non con dame o vicino. Lui, che le legge come libri, sorride come chi segna con il gesso un muro prima che venga abbattuto. “Non preoccupatevi per me,” dice. “Troverò la mia strada da solo. La trovo sempre.” Si ritira. Il silenzio che lascia dietro di sé non è calma. È una stanza appena svuotata che conserva ancora l’odore del suo ultimo proprietario.

Victoria fa un passo avanti. Mercedes la osserva. “Non chiedermi se sono dalla tua parte,” avverte. “Chiedimi da che parte sono io e da che parte sei tu.” Victoria accetta senza fronzoli. Mercedes si avvicina con un sorriso senza denti. “Dalla parte che non mi affonda,” risponde. “E ora, cara, se tu affondi, io mi bagnerò fino alle sopracciglia. Quindi parliamo.” Si siedono in biblioteca, dove i libri sembrano ascoltare per diletto. Victoria parla per prima con quella franchezza che si concede solo quando il mondo si sta rimpicciolendo. “Damaso non vuole solo un posto, vuole riscrivere la storia. Se lo lasciamo fare, io tornerò ad essere l’episodio vergognoso della sua biografia. E tu, il capitolo che lui sopprime a convenienza. Non pretende di occupare il palazzo. Vuole evitare le nostre versioni più antiche.” “Il passato non si rivede senza sangue,” dice Mercedes, ricordando un matrimonio iniziato con gigli e terminato con conti in banca vuoti. “Cosa proponi, Alleanza?” dice Victoria e la parola le brucia un po’ la lingua. “Non amicizia, non affetto, non lealtà cieca, alleanza. Tu e io sappiamo che questo non lo reggono gli uomini, lo reggiamo noi. Tu muovi i commercianti, io muovo le famiglie. Se lo avviciniamo dai bordi, entrerà disarmato nella sala principale. Voglio che incontri donne che non sono le sue marionette.” Mercedes gioca con un anello. Immagina per un istante che non vuole prolungare la soddisfazione di vedere Damaso esitare appena di fronte a una porta che non si apre. Immagina anche il prezzo. Il suo nome associato a quello di Victoria, la donna che i pettegolezzi preferivano odiare piuttosto che capire. “E il Duca ha chiesto,” “Perché se pensi che giocherai queste carte senza che lui ti guardi le mani? Sei più ingenua che buona stratega.” “Il Duca guarda,” ammette Victoria, “e a quanto pare anche tocca, ma in questo momento ha un incendio nella casa piccola e se lo cura con la mano sinistra, forse non vede la destra.” “Ah, la prigione, la fratellanza e la ragazza,” enumera Mercedes assaporando la mappa. “Il tuo problema allora si chiama tempo. Il suo fuoco. La mia reputazione.” Si china in avanti.

“Farò meglio che dirti di sì,” annuncia. “Ti darò due nomi. Uno ti aprirà porte nella corporazione che Damaso crede di controllare. L’altro ti darà un pettegolezzo utile, di quelli che sembrano bugie, ma diventano verità.” Victoria obbedisce alla sua fame di controllo e ascolta attentamente i nomi. “Usali con cura,” raccomanda Mercedes. “E se fallisci, non nominare me.” “Se falliamo,” corregge Victoria. “In questo siamo insieme.” Mercedes sorride di lato, “Solo finché non c’è rischio di affogarmi.”


Quel pomeriggio, quando il cielo decide di indossare la giacca grigia dell’autunno, Alejo arriva alla piccola casa con la decisione all’angolo della bocca. Saluta Adriana con un bacio sulla fronte che è insieme scusa e promessa. “Ho pensato a quello che mi hai detto,” confessa. “Che a volte la verità non tira fuori nessuno da nessuna parte, ma almeno illumina la prigione. Andrò a vedere il Duca. Non andrò con modestie, andrò con domande.” “Le domande non basteranno,” lo frena Rafael, che entra. “Bisogna portare prove. Voglio che ascolti questo.” Rafael racconta quello che ha visto nella prigione con parole che gli sanno di ferro. Parla delle dita che lasciano segni dove la giustizia non dovrebbe. Parla della voce che ha pronunciato Duca come se dicesse Dio. Alejo fa una smorfia di rabbia. “Ingoieremo l’orgoglio,” dice. “Anch’io sono devoto, e il mio santuario è la libertà di Luisa.” “Non inginocchiarti,” chiede Adriana, “non confondere la tua riverenza con codardia. Parlagli come all’uomo che decide, non come al santo che concede.” “Lo farò,” assicura Alejo. “Ma se me lo permettono, entrerò dalla porta grande e uscirò da quella più grande. Voglio che il Valle venga a sapere cosa succede lì dentro.” Prima che possa andare, Isabel li ferma con una mano in aria. “Aspettate,” dice. “Se andate a mettere il mondo sottosopra, portate in tasca la verità che ho qui.” Va nella sua stanza e torna con un pacco avvolto in stoffa. Lo scioglie con la meticolosità dei riti. Dentro ci sono lettere, ricevute, un libretto di conti con cifre minuscole e un foglio con la calligrafia di Isabel, ferma, pulita, dolorosa. “Qui ci sono gli acquisti delle medicine,” spiega. “Qui gli invii al laboratorio di Burgos. Qui il legame con Beatriz. E qui…” tocca con l’indice il bordo del libretto. “Una annotazione fatta da qualcuno che non ha mai imparato a scrivere i suoi peccati. Per ordine della casa maggiore.” Alejo prende i fogli con riverenza. Rafael si schiarisce la gola. “Perché non ce l’hai dato prima?” Isabel lo guarda con una tenerezza che non sa imitare le indulgenze. “Perché prima non erano pronti,” dice. “Le verità maturano anche. Se le strappi verdi, amari. Se le lasci passare, puzzano. Oggi sono al punto giusto.” Alejo infila il pacco nella giacca. Si volta verso Adriana. “Dimmi qualcosa per non dimenticare di respirare se mi guardano con disprezzo.” Lei sorride, spezzata e intera allo stesso tempo. “Guardami,” chiede. “E pensa che mio figlio, nostro figlio, merita un Valle dove la parola Duca non spaventi nessuno.” Alejo annuisce, se ne va con il passo degli uomini che hanno scelto un fiume e decidono di attraversarlo senza misurare l’altezza dell’acqua.

Alla stessa ora, Eva si siede sul bordo del suo letto con le mani incrociate in grembo. Ha voluto piangere tutto il giorno, ma ora, finalmente, il pianto l’ha trovata. Non è solo per Amadeo, suo fratello, il suo specchio inaspettato, è per tutte le vite che ha vissuto senza saperlo. La porta si socchiude e Amadeo entra lentamente, come se tornasse in una stanza proibita. “Posso?” chiede con la timidezza degli uomini che non vogliono fare rumore quando calpestano il proprio cuore. “Puoi,” dice lei, e la parola le esce come un filo. Si siede al suo fianco. Non si toccano, ma parte del loro dolore si unisce. Come si uniscono due preghiere dette in stanze diverse che, tuttavia, condividono lo stesso cielo. “Non so chi sono,” confessa Eva. “Sono stata tante cose in prestito e ora che ho un fratello, non ho un nome per questa gioia triste.” “Te lo dirò io,” propone Amadeo. “Sei Eva e sei abbastanza.” Lei ride. Quella risata corta che a volte è solo una tosse dell’anima. “Abbastanza per cosa? Per restare.” “Per non scappare. Per dire no se il suo sì ti rompe. Per dire sì se il suo no ti trasforma in pietra.” Lei lo guarda come se ascoltasse musica dietro un muro. “Parli come se ti avessero insegnato a consolare le donne.” “Mi ha insegnato la fame,” dice. “E il lavoro e la necessità di non perdere la tenerezza. Se la perdo, non mi trovo quando mi cerco.” Si guardano un po’, respirando all’unisono. Eva pensa di dire a Isabel che non può sopportare tanto, che il mondo le fa male in tutte le sue parti. Pensa di chiedere a Victoria, a quella donna che a volte sembrava di marmo, di lasciarla essere piccola. Non dice nulla. A volte tacere è il modo più onesto di chiedere aiuto.

La notte arriva con un odore di terra bagnata. Nello studio del Duca, la lampada a olio disegna sui muri le ombre dei mobili. Lui è in piedi, guarda dalla finestra come se si aspettasse di vedere qualcosa di diverso dal solito. Il cortile, le statue, la fontana, il capanno che nessuno usava. Quando Alejo entra, il Duca non si volta subito. O forse non si volta perché sa che quella è la prima disciplina del potere: far aspettare chi arriva. “Signore,” saluta Alejo. “Grazie per avermi ricevuto a quest’ora.” “Le ore appartengono agli uomini che se le guadagnano,” replica il Duca senza gesto. “Cosa vuole?” Alejo fa tre passi avanti. Nota che a ogni passo la stanza si fa un po’ più stretta. “Voglio parlare di Luisa,” dice. “E voglio farlo con prove.” Pone sul tavolo il pacco che Isabel gli aveva dato. Il Duca inarca un sopracciglio con un piglio preciso. Alejo inizia a parlare, non declama, narra. Gli racconta le ricevute, le date, i nomi, gli invii. Gli racconta il tremore della parola Duca sulla bocca di un uomo che non ha dato il suo nome. Gli racconta che Adriana ha visto marchi sul corpo della sua amica dove non avrebbe dovuto vederli. Ogni frase è una pietra e ogni pietra cade in uno stagno dove il Duca non aveva l’abitudine di guardare il suo riflesso. Quando Alejo finisce, il silenzio è una corda tesa. Il Duca lo taglia con un sospiro, non di stanchezza, ma di calcolo. “Continui, dunque,” chiede senza alzare la voce. “Che io ho ordinato maltrattamenti, che io muovo i fili della santa fratellanza come se fossero quelli di un sipario, che i miei uomini toccano corpi come se fossero porte.” “Non insinua,” dice Alejo. “Sospetta. E se lei me lo permette, sospetto con motivo.” Il Duca lo guarda allora di fronte. I suoi occhi sono due pezzi di metallo vecchio, non per l’usura ma per l’affilatezza. “Sei diventato coraggioso,” osserva. “O imprudente.” “Mi sono diventato urgente,” corregge Alejo. “Che non è la stessa cosa.” Il Duca distoglie lo sguardo verso il pacco. Non lo tocca. “Farò le mie indagini,” annuncia. “Se qualche zelo è stato ecceduto, se qualche uomo ha confuso il suo dovere con il suo piacere, se qualcuno ha usato il mio nome come una scusa, lo saprò. Ma non si sbagli. Non verrà qui a insegnarmi come gestisco le mie cose.” “Non vengo a insegnare,” dice Alejo. “Vengo a ricordare a lei e a me che le sue cose non sono le persone. Le persone non appartengono a nessuno.” La mascella del Duca si tende appena. Ride dal naso. Senza umorismo. “È tardi,” dice. “Torni domani e se a casa sua non si sveglieranno con risposte, torni con più carte. Il Valle è diventato molto amico delle prove.” Alejo vorrebbe dire: “Non ho altro che la vita di una donna, ma aveva già imparato che ci sono frasi che non entrano in certe stanze.” Annuisce una volta con quella dignità che porta sempre un po’ di fame e si ritira.


Nel corridoio incrocia Rafael. Il figlio ha gli occhi accesi come se avesse deciso che quella notte non si sarebbe coricato prima di accendere una luce. “E allora,” chiede. “Cosa ha detto? Cosa indagherà?” “Domani?” risponde Alejo. “Domani? Carte?” “Sempre domani,” mormora Rafael come se il tempo non fosse un corpo che sanguina. Si guardano, fratelli di una lotta che non avevano chiesto. “Non ci spegneranno con date,” promette Alejo. “Se domani non basta, facciamo di domani un rumore,” “o facciamo di domani un martello,” propone Rafael. “o un coro,” aggiunge lui. “Che il Valle parli, che si senta dalla prigione.” Si stringono la mano, non come chi sigilla un’alleanza aristocratica, ma come chi condivide una pagnotta.

All’alba del giovedì 6 novembre, il Valle si sveglia con un’umidità che sale dal suolo come un mal presagio. Alla stessa ora in cui una cameriera apre le finestre della biblioteca della Casa Grande, Mercedes riceve una nota con la scrittura accurata di un commerciante che non era disposto a perdere la sua posizione. “Accetto il tuo invito,” diceva. “Ma voglio una doppia garanzia.” Mercedes sorride. Il doppio le era sempre piaciuto. Alla stessa ora, nella piccola casa, Adriana si sveglia con la fermezza di chi ha pianto abbastanza. Ha sognato Luisa che camminava per un corridoio lungo, così lungo che alla fine non c’era più porta. Era aperto come una strada. Ha sognato il bambino che respirava al ritmo di un tamburo. “Oggi non staremo fermi,” dice al grembo. “Oggi si apre una finestra o ne rompiamo una.” Scende in cucina. Isabel è già in piedi con il grembiule pulito e la dignità stirata. Si guardano senza bisogno di parlare. Entrambe lo sapevano, entrambe lo avrebbero fatto, l’una parlare, l’altra spingere. Eva entra con un gesto diverso. Ha gli occhi lavati e una nuova decisione nell’andatura. “Se tirate fili,” annuncia, “io tirerò i miei. Ho servito pasti, ho annusato lettere, ho raccolto fazzoletti dove gli uomini lasciano le loro bugie. Non farò la spia,” chiarisce orgogliosa. “Farò da testimone e se la mia testimonianza serve, che serva oggi.” Adriana la abbraccia con una cura appena estrenata. “Non lasciarci a metà,” le chiede. “Ho bisogno che questo che stiamo per fare non mi rompa un’altra donna in cambio.” Eva annuisce. “Sono stanca di essere il prezzo degli uomini.” Rafael entra con un’energia che sembra di più gente. “Ho inviato messaggi,” informa. “Alla piazza, al parroco, alla scuola. Non urla, domande. Chi ha interrogato Luisa? Con quale permesso? Chi ha pronunciato il nome del Duca? Se nessuno risponde, il silenzio suonerà più forte delle nostre voci.” Alejo, con la giacca addosso e il pacco di prove in tasca interna, prende la tazza che Isabel gli offre. “Oggi, quando l’orologio segnerà mezzogiorno, busserò di nuovo alla porta dello studio del Duca,” dice. “E se non si apre, chiederò che aprano le finestre, che entri l’aria.” “Se non si aprono,” aggiunge Adriana, “le romperemo. Con i nomi, con le carte, con le donne.” Isabel chiude gli occhi per un secondo. “Le donne,” era vero. Tutta l’architettura di quel giorno poggiava su spalle di donna. “Che Dio ci veda,” mormora. “E che se ci guarda, si spaventi prima lui.” Alla stessa ora, Damaso si affaccia al balcone della casa grande con un bicchiere di liquore in mano. Guarda il cortile come chi valuta una scacchiera. Non vede Victoria uscire dalla porta laterale verso la biblioteca. Non vede Mercedes girare l’angolo con due lettere in borsa. Non vede un garzone di scuderia passare veloce con uno sguardo incaricato. Non vede, perché gli uomini come lui a volte non vedono, la rete che due donne avevano deciso di tessere con fili invisibili.

Victoria si ferma un istante prima di spingere la porta. “Non ho paura,” si dice senza retorica. E per la prima volta in settimane, ci crede. Mercedes l’aspetta già con l’odore di inchiostro fresco e il metallo degli anelli che brillano appena. Si sorridono non come amiche, ma come alleate, che hanno deciso che la loro croce non sarà muta. “Allora,” dice Mercedes tendendole la prima lettera. “Qui inizia il nostro lavoro.” “Qui inizia,” conferma Victoria aprendo la lettera con dita che non le tremano. “E che ci trovi il Valle a parlare di noi con le nostre bocche, non con quelle degli uomini.”


Il sole, timido, inizia ad aprire gli occhi. Sul Valle, la mattina odora di qualcosa che non è nuovo, ma è diverso, la possibilità. Non è ancora vittoria, non è ancora libertà, non è nemmeno giustizia, è una corda che qualcuno inizia a tirare con decisione. La corda trema, la prigione, i corridoi del palazzo, la piazza con la sua fontana, la cucina dove bolliva il brodo e la biblioteca con i suoi libri stanchi sentono quel tremore. E in mezzo a tutto ciò, Luisa, seduta sul bordo del giaciglio, mette i piedi per terra e li lascia lì per un lungo istante, come chi ricorda che il corpo è una casa che ancora abita. Chiude gli occhi e si vede camminare per quel corridoio del suo sogno senza porta. Alla fine, si stira la schiena, anche se fa male. “Reggi,” si dice a bassa voce. “Oggi vengono con la luce.” “E se no, verranno con i martelli.” Non sapeva, nessuno lo sapeva ancora, che mentre posava i piedi sul terreno ruvido, una penna si fermava su un foglio con un gesto di dubbio nello studio del Duca, che una mano di donna firmava in biblioteca un’alleanza che non chiedeva permesso, che nella casa piccola una tazza si rompeva nel lavandino e il suono, senza volerlo, sembrava il primo colpo contro un muro. Ma lo intuiva e per la prima volta da quando l’avevano rinchiusa, sorrise anche con gli occhi. Il Valle respirò. Nessuno poteva dire se quello che veniva avrebbe fatto più male o salvato qualcuno. Ma qualcosa quella mattina iniziò davvero e quando un luogo come Valle Salvaje inizia, lo fa con il cuore intero. Perché qui ciò che si ama si difende e ciò che si difende impara a parlare. “Oggi,” si promettono senza esserselo detto. Oggi, e l’orologio, obbediente finalmente a un diverso tipo di mandato, segna il primo rintocco di mezzogiorno.